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La recensione di Silvio D'Amico
 

La recensione

 

In una chiesa francescana una tragedia preeschilea


Anche quest'anno il giovane Istituto del Dramma Popolare nella cittadina di San Miniato al Tedesco, ricorrendo la festa di san Genesio patrono degli attori e protettore della città, ha messo in scena un dramma sacro, d'autore contemporaneo. Ma non come l'anno scorso, in piazza; questa volta addirittura in chiesa.
E adesso finalmente posso dirlo: io ero venuto qui con una paura atroce, la paura che una lunga esperienza mi mette addosso per tutte le imprese del genere: nel caso presente, esasperata dalla allarmante scelta dell'opera, "Assassinio nella Cattedrale" di T. S. Eliot. Per quanto collaudato da leggendari successi di pubblico all'estero, e da esito felice anche in recenti saggi a Milano e a Roma, l'"Assassinio nella Cattedrale" è quello che è: un'opera formidabile nel senso etimologico del vocabolo, costruita com'è con autentici mattoni. Nessuno discute la fama di Eliot lirico e saggista: ma sulle pagine di Eliot drammaturgo sono stati in molti a porsi degli interrogativi. Si pensi alle vicende di san Tommaso Becket, come ce le offre la storia: cancelliere del re d'Inghilterra, Tommaso, divenuto arcivescovo di Canterbury, avverte d'improvviso l'indicibile supremazia del suo nuovo ufficio, spirituale, sull'antico, temporale, e agisce in conseguenza; sicché per sett'anni deve andarsene in esilio; e al suo ritorno in patria il re, ritrovandolo più che mai fermo nella sua intransigenza, lo fa assassinare presso l'altare. È difficile non rimanere stupiti scoprendo come, da tali vicende, Eliot abbia tranquillamente buttato a mare tutti gli elementi teatrali — crisi intima del servo del re divenuto servo di Dio, contrasto col sovrano, lotta coi vescovi devoti al re e ribelli al papa, eccetera —, per attenersi unicamente alla essenziale, lirica rappresentazione di uno stato d'animo.
Non sarebbe esatto dire che d'un siffatto dramma, o poema, Tommaso sia il protagonista. Egli ne è l'unico attore, or più or meno dialogante con quattro gruppi corali: quello di tre preti, che rappresentano il clero a lui fedele; quello di tre povere donne, che rappresentano il popolo; quello di quattro tentatori, che rappresentano le seduzioni del mondo contro l'eroismo del martire; e quello dei quattro cavalieri che lo assassineranno. All'annuncio del suo ritorno l'orfano clero che per sett'anni ha atteso il suo padre venerato, esulta; ma le donne del popolo tremano: anche riconoscendo e riverendo la santità dell'arcivescovo, ne paventano l'irreducibilità, intendono che il quieto vivere di cui esse povere creature terrene hanno umilmente bisogno sta in pericolo, pensando allo scompiglio e al sangue che seguirà. Questo — e non già le circostanze storiche della vicenda, che il poeta dà come note — esprimono le parole pronunciate da Tommaso e dai cori:- non tanto come contrasti quanto come canti, come inni lanciati direttamente al Gelo. Il contrasto più vero, Tommaso lo sente in sé; fra sé, e le tentazioni, che il poeta ha esteriorizzato in quattro allegoriche apparizioni: la tentazione dei piaceri mondani, quella del dominio politico, quella dell'utile sociale, quella della vanagloria del martirio.
Qui dunque siamo sulle cime, in un'atmosfera rarefatta; siamo nello stile di un dramma quintessenziato che, col suo unico attore alle prese coi gruppi corali, si richiama alla elementarietà della tragedia antichissima, preeschilea; ma fors'anco col rischio di spostarsi verso un clima notevolmente diverso, quello tra infantile e sontuoso, tra disfatto e splendido, di un Claudel.
Comunque, opera di classe insigne, e di mire supreme, per la quale fu già proposta più volte la vecchia, ripudiata, e tuttavia insopprimibile domanda: è teatro questo?
Si è ribattuto, al solito: e che vuoi dire « teatro »? Io non so in qual modo gli altri registi abbiano risolto i problemi della sua messinscena: ricordo soltanto d'aver letto, anni fa, il resoconto d'un nostro illustre scrittore che, spiegando il successo della sua prima interpretazione scenica londinese con ragioni piuttosto contingenti, concludeva d'aver preferito la lettura dell'opera alla sua rappresentazione.
Per conto mio, dopo lo spettacolo che Giorgio Strehler e i giovani artisti del Piccolo Teatro milanese hanno dato nel tempio samminiatese di san Francesco, con una interpretazione che ha rilevato, reso accessibile e, in certo senso, potenziato la poesia del testo, sarei indotto ad affermare esattamente il contrario. Portando la scena in fondo alla chiesa, chiudendo l'altissimo arco dell'abside con una fittizia, immensa vetrata a colori di Gianni Ratto, ed erigendole davanti un vasto palco a forma di croce di sant'Andrea, Strehler vi ha guidato e composto il protagonista e i suoi quattro cori, stilizzandoli con una severità nuda ma non ingrata, in uno schematismo che non è mai diventato astrattismo. La solennità dell'ambiente, e la suggestione profonda delle sobrie musiche gregoriane, hanno fornito al regista elementi ch'egli ha sfruttato con accortezza di vecchio maestro. E sarebbe anche lecito chiedersi quanti altri fra i nostri attori avrebbero potuto cimentarsi, come questi giovani sotto la sua guida, con la straripante copia di immagini e d'argomentazioni, di cui il testo nella traduzione del Castelli (meno agevole di quella, più cruda ma più fotte, del Lodovici) ribocca.
Gianni Santuccio ha superato se stesso incarnando Tommaso con una sicurezza virile, e con uno stile ieratico, ma di contenuto ardore.
Eccellenti il Giardini, il Berlini e il bravissimo Moretti nel gruppo del clero; ottimi il D'Angelo, il Farese, il Feliciani e il Battistella, passati felicemente dai toni fra macabri e surrealisti dei quattro tentatori a quelli aspri e violenti dei quattro assassini. Ma la perfezione fu toccata nella stupenda concertazione del coro femminile: chiara e distinta Lia Angeleri, più spirituale Lillà Brignone, più liricamente ricca e varia Edda Albertini.
Dell'entusiastico successo non è a dire. Dopo tante riserve a cui gli eccezionali spettacoli estivi così spesso ci costringono, oggi ci è caro prendere atto della fulgida nobiltà di questo.

 

SILVIO D'AMICO, R.A.I., Mercoledì 25 Agosto 1948




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