La recensione
I fantasmi del passato in un' opera tutta moderna
Ogni anno l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato sceglie un testo di accento cristiano da mettere in scena, tra luglio ed agosto, nell'antica piazza della cittadina. Quest'anno la scelta è caduta sull'ultima opera di T. S. Eliot, "II grande statista" (traduzione piuttosto libera del titolo originale, "The Elder Statesman"), che fu recitata per la prima volta l'estate scorsa al Festival di Edimburgo. Lo spettacolo diretto questa sera da Luigi Squarzina nella piazza della cittadina toscana può dunque essere considerato come la prima continentale dell'opera di Eliot.
Il grande statista è la rappresentazione simbolica della fine di una vita. Definizione alquanto approssimativa, soprattutto se si pensa alla quantità di significati che si possono attribuire alle vicende, in genere solo apparenti, svolte da Eliot nelle sue «pièces» teatrali, esemplificazione drammatica della sua poesia. Definizione che ha, qui, uno scopo puramente
didascalico, e alla quale potremmo aggiungere, precisando, che tema dell'opera è una espiazione, una redenzione attraverso il tempo, motivo fondamentale in Eliot.
Il vecchio statista è Lord Claverton-Ferry. Raggiunto il culmine degli onori, nella politica e nell'economia, costretto da incerta salute a ritirarsi a vita privata, egli fa la sua apparizione nel primo atto con in mano un'agenda le cui pagine sono bianche, più nessun impegno, più nessun gesto da compiere, il tempo è vuoto.
Lord Claverton ha accanto una figlia, amorosa e sensibile, e il fidanzato di costei, uomo retto e onesto. Ma queste dolci apparenze della vita che continua, vengono ben presto respinte ai limiti di un cerchio d'ombra. Cala infatti sul vecchio uomo l'ombra del passato, apportatrice di fantasmi. È dapprima un suo vecchio compagno di Oxford che riappare, Fred Culverwell, che ora si presenta sotto il nome di Federico Gomez. Il destino di costui, ragazzo povero e assetato di successo, era stato modificato dalla vicinanza del giovane che sarebbe poi diventato Lord Claverton.
Il pernicioso esempio di un'intelligente e ironica dissolutezza lo aveva condotto sulla via dei compromessi morali.
Cosa vuole? Apparentemente, soltanto l'amicizia dell'antico compagno di studi e d'orge. In realtà, è venuto a esigere qualcosa di più, la moneta del rimorso che saldi i vecchi conti.
La stessa amara moneta chiede, dolcemente sorridendo, come campata in aria esterrefatta, antica, Maisie Batterson, la donna che Claverton-Ferry aveva illuso in giovinezza e poi abbandonata. Essi, i fantasmi, gli porteranno via il figlio, Michael, che è, sì, ribelle al dispotismo paterno ma che è anche, dei giovanili difetti e vizi paterni, una tenera reincarnazione, l'immagine, proiettata in uno specchio, di un'amata e odiata giovinezza.
Ora, rimasto solo, accanto alla figlia fedele e all'austero fidanzato di lei, il vecchio uomo potrà finalmente riaccettare se stesso, confessare ad alta voce le proprie colpe segrete, e avviarsi, sotto lo sguardo dei due, che continueranno la vita nell'amore, verso la «tenebra di Dio», così Eliot stesso chiama la morte in uno dei suoi "Quartetti".
Tutto ciò avviene (secondo e terzo atto), nel giardino di una clinica o, meglio, di una casa di riposo, di un albergo per ricchi estenuati, luogo evidentemente allegorico. Come sempre nei drammi di Eliot ("Assassinio nella Cattedrale" a parte) il linguaggio è quello della vita quotidiana, i modi sono quelli convenzionali ed eleganti della buona società inglese. La carica simbolica è sotto le parole, rompe qua e là ad opera dei personaggi consapevoli, dei « Veggenti ».
A nostro parere il fascino di quest'opera, specialmente nel terzo atto, il più alto e compiuto, deriva da dati tutti moderni di cultura, non ultimi i contributi della psicanalisi portati al livello della poesia.
Anche per questo la traduzione di Desideria Pasolini, pulita e prosastica, è sembrata insufficiente anche a chi — e sono i più, l'opera è nuova — non conosce il testo inglese originale.
Ciò che appare veramente notevole, invece, è la regia di Squarzina. Specialmente nel secondo e terzo atto, egli ha saputo sfruttare l'incanto naturale e architettonico della piazza di San Miniato.
In questa cornice l'apparato scenico di Luciano Damiani aveva una sua suggestione d'incubo, ma un incubo bianco, leggero, nelle sue cadenze geometriche, simili a rime. Ivo Garrani era il protagonista e ha recitato con una pensosa interiorità. Gianrico Tedeschi, plastico, efficiente, è stato un po' troppo realistico nel personaggio dell'amico tornato sotto le apparenze del rimorso. Più di tutti ci è piaciuta Laura Adani, che sotto la guida di Squarzina va evidentemente scoprendo la sua nuova, assai fine, personalità. Completavano il gruppo degli interpreti Corrado Pani, Franco Graziosi, la ben caratterizzata Giusi Dandolo e una giovane allieva dell'Accademia, Giovanna Pellizzi, inevitabilmente acerba ma certamente sincera. Anfiteatro gremito e molti applausi.
ROBERTO DE MONTICELLI II Giorno, Milano, 30 Luglio 1959
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