La recensione
Ti amo tanto e te lo scrivo in latinorum
La storia delle sciagure di Abelardo ed Eloisa la si potrebbe dire, certo assai più di quella della Monaca di Monza, un classico della letteratura eretico-cattolica, senza ombra di ironia. Eloisa non è davvero una Santa Teresa, ma le sue estasi sono concrete, carnali, tangibili, evocativamente ragionate nelle lettere. E l'intreccio dell'eros più sofferibile con le grandi dispute teologiche che agitavano la chiesa soprattutto francese, di questo segretario galante che corre di convento in convento, di scuola di teologia in abbazia circestenze — a raccontare, a ricordare, a fingere pentimenti, a cercare punizioni sacrificali al peccato — già in pieno medioevo poco illuminato, contiene un po' dello splendore di quello che sarebbe stato il grande romanzo epistolare del Settecento.
Intendiamoci: Abelardo non è certo Valmant, siamo del tutto lontani dal mondo libertino, qui c'è puzzo di segreta e rumore di argano da tortura, qui il sadismo non è la cantaride di Sade: bisogna andare a Gilles de Rais per trovare un sostanzioso equivalente del nodo sanguinoso della vicenda di Calamità: la truce evirazione cui Abelardo viene sottoposto per vendetta punitiva, e che costituisce il centro psicologico delle lettere, il coup de theatre della crudeltà.
Sì, certo, psicologico. Perché non è ancora tempo di gettare via questo gratificante passepartout. Le lettere di Abelardo, e forse ancor più quelle di Eloisa, si adattano infatti ad una decrittazione con tutti i possibili cifrari freudiano e lacaniani, o anche più mondanamente barthesiani e bataillaini. Ad ogni passo ci si imbatte in un atteso crittogramma che, alla furbizia di chi si è già fatto tante riforme e controriforme sembra un abc.
Però Franco Enriquez riducendo per il teatro la vicenda di Eloisa e Abelardo, non ha tenuto gran conto di questa possibilità, che forse gli è sembrata la più banale, la più ovvia e prevedibile. Ma certo era altrettanto imprevedibile, in un uomo non certamente convenzionale come lui, che mettesse così ostentatamente in scena proprio la convenzione.
E che, essendo il dramma rappresentato in una chiesa, l'ecclesiale dovesse invadere e comandare la partita di regia. Esorcizzato il diavolo con qualche fumone e qualche ritmo alla Carmina Burana, allontanata l'idea di una Parigi immersa nel delirante gaudio del medioevo attraverso una citazione pulita dei songes drolatiques, eccoci alla parte centrale del carteggio: lui di qua lei di là, su pedane e seggiole sempre alla Ceroli, che si lanciano i rotoloni in una ideale posta pneumatica dove il piccione viaggiatore è lo spirito santo.
E lui legge le lettere di lei, e lei quelle di lui, e leggono talvolta ad unisono per superare in qualche modo la difficoltà e la noia di un linguaggio letteralmente altissimo, ma proprio tanto difficile da dire e da ascoltare anche quando a dirlo è un fine dicitore come Nando Gazzolo e una attrice passionale come Valerla Monconi. Ma la fine dizione e la passionalità risultano alla resa dei conti un dato negativo, e capace addirittura di nascondere ogni sostanza: non solo quella psicologica, ma anche la più complessa questione del presunto ruolo «contestatore» e laico se non laico di Abelardo.
I famosi dibattiti che lo videro protagonista e vittima son qui offerti (con Carlo Hintermann) come stralci di un reader's digest, con qualche spolveratura di latinorum e di citazioni dantesche, colpi alla Brecht, il «Credo» di Abelardo utilizzato come se questo fosse un Galileo. Ma non lo è: il dibattito risulta un chiacchiericcio di formule incomprensibili; e dove le si comprenda, del tutto futibili. E la letteratura alternata delle lettere, riportandoci ad altri stili e stilemi più teatrabili, ci informa però che Abelardo non era Shaw e che Enriquez, tutto sommato, non ha neanche scritto o messo in scena un Caro Bugiardo al Convento.
Certo, la materia del divertimento della causerie non c'era. Ma c'era ben altro ed Enriquez non lo ignorava: c'era il medioevo, da non risolversi con la solita apparizione di mascheroni allusivi, cioè già visti nella pratica più allegra di tanti magici circhi, e c'era il senso del diavolo e della morte, ma anche qui siamo nel tropismo del dies irae e del in paradisum deducant te angeli. E si può capire che, dinanzi a un pubblico largamente composto di ecclesiastici in clergymen e senza, bisogna un pochino glissare sulla storia dell'evirazione. Ma ecco, anche questo dice, che fare il teatro così, e a certi patti con l'angelo, si finisce con lo stare alla regola che in chiesa non entrano cani, e tanto meno i diavoli satireschi.
Tommaso Chiaretti, La Repubblica, 27 Agosto 1978
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