L'uomo accusa Dio per la sua grande disperazione
Querela contro ignoto si intitolava un dramma qui rappresentato alla Festa del Teatro del 1978, autore Georges Neveux. L'Ignoto ora ha un nome, ed è l'imputato assente in quel Processo di Shamgorod dello scrittore ebreo Elie Wiesel, trama e contenuto del quale abbiamo presentato nel numero di venerdì scorso. Dio sotto accusa, per tutte le violenze della Storia su un popolo errante; il grido dei morti innumeri assunto ad argomento di una requisitoria appassionata da parte del taverniere Berish, unico superstite di un pogrom, che l'autore immagina avvenuto in un villaggio dell'Europa Orientale a metà del Seicento.
E dunque la disperazione dell'uomo abbandonato al suo Creatore, mentre il mondo è abbandonato alla sola dimensione della Storia. Così pare al protagonista di questo notevolissimo dramma che inquieta ed anzi folgora con i suoi interrogativi, perché è evidente che, mentre vi si dispiega la cultura ebraica, si supera, come eco, la vicenda comunitaria (e anche quella personale), per levare una domanda che può essere ben considerata universale.
Dramma del ricordo, da parte di uno scampato da Auschwitz e da Buchenwald? La definizione suggerirebbe una idea di "memoriale", che in quest'opera dell'inesausto scrittore non si riscontra più almeno in termini cronachistici. Dramma dell'olocausto? L'olocausto perenne di un popolo qui è ormai investigazione filosofica da parte di uno spirito profondamente religioso, il quale cerca di risolvere i problemi connessi con la conoscenza del Male, da una parte, e le promesse di Jahvè e il fine della Storia, dall'altro.
Il Processo di Shamgorod, cioè, è uno spazio dell'intelletto, è un « dramma per capire ». Esso porta alla luce e fissa con momenti di grandissima suggestione le questioni profonde dell'uomo messo di fronte alla realtà più atroce, di cui ricerca un « perché ». Bisogna andare oltre la negazione e la disperazione del protagonista, e leggerlo come opera di fede e di speranza, malgrado tutto. La parola, del resto, è sempre messaggio, colloquio, vita. E l'esigenza della vita è anch'essa ostinatamente affermata in questo dramma, che è quanto meno un richiamo angosciato all'amore e alla pace. Non a caso Elie Wiesel, viaggiatore nella notte che continuamente scende sul mondo, è stato candidato a un Nobel per la pace.
Prendiamo atto, adesso, del significato della introduzione sulla scena italiana di un testo, in cui Dio non è una interiezione, ma un interlocutore.
Un testo di forte pregnanza etica e di sapienti spessori, come si evince anche riflettendo sull'originale affidamento ad una figura notevolmente assimilabile a quella di Lucifero, la funzione di difensore di Dio, dal momento che i suoi testimoni naturali sono morti, e gli altri sono passati dalla parte di giudici di una Creazione tutta lorda di sangue, di un creato gremito di vittime mute e di assassini trionfanti. O l'avere identificato nella serva di Berish, Maria, che è cristiana, l'unica spettatrice di una rappresentazione per una festa ebraica (Purìm), e soprattutto l'averla resa « esemplare » peccatrice, nel suo rapporto con Sam (seduttore o soltanto tentatore?), colui appunto che enigmaticamente — ma con argomenti dolorosamente stupendi — sostiene le ragioni di Dio, che altro non sono se non il suo mistero ed anche il mistero dell'uomo, nel suo impatto più segreto con il dolore, la morte e la grazia stessa, quale può celarsi in un colpo di spada o di fucile ricevuti.
E, in questa opera, il richiamo al divertimento è pure preciso: i toni sono molti, ma forte, e dialettico, è quello della festa, che dovrebbe essere guidata ed espressa da un terzetto poverissimo di attori girovaghi, più giullari che trovatori. Due terzi del « Processo di Shamgotod » sono teatro nel teatro. Questo lo ha ben capito Roberto Guicciardini, incaricato di allestire il testo dall'Istituto del Dramma Popolare, diretto da Marco Bongioanni, impresa cui ha risposto con partecipe attenzione ai valori di un copione alto e inusitato, e che forse porrà in qualche imbarazzo la cultura laica (la quale suole rispondere defilandosi da certi impegnativi appuntamenti, così diversi e alternativi). Bene, Wiesel è autore col quale si debbono fare i conti, e credo che, invece, avrà un fecondo impatto con un pubblico libero, se il proposito di divulgarlo avrà seguito, cioè troverà intelligenza di aiuti concreti.
Lo spettacolo nato dalle cure intelligenti di Guicciardini è — con tutta la scontata perfettibilità — solido, efficace, animato. I tagli compiuti non tralasciano i nodi concettuali o sentimentali, e la varietà degli umori — il gioco intrinseco al testo — trova segni giusti, ancorché ulteriormente definibili. Giustamente, poi, si è evitata l'imitazione, è stato bandito il presunto colore locale, si è rifiutato un linguaggio scenico remoto e impraticato, per lasciare che la vicenda prendesse corpo in tutto il suo peso umano. Il regista è intervenuto con qualche sottile adattamento, che riguarda specialmente la figura di Sam: il supposto Demonio (e del pari i suoi compagni), non si definisce più attraverso l'improvvisa maschera demoniaca finale, ma spegnendo una lampada che aveva lasciato, per così dire, accendersi troppo, in quanto Satana pur sempre è suddito al servizio di' Dio. E Warner Bentivegna molto finemente e studiatamente tratteggia un Sam la cui fredda logica si vela, in crescendo di malinconia e di nostalgia per il cielo perduto. La ruvida scorza di Carlo Bagno fiorisce di accenti sensibili e incisivi, autenticamente riflessivi, mentre Carlo Hintermann conferisce a Bersh una intensità lucida, una rabbia che sanguina dentro, una intrepidezza e una sofferenza cospicue.
Anna Teresa Rossinf sostiene con accorta energia e vigili e pronte modulazioni il ruolo, di ardua drammaticità, di Maria. Di bel risalto sono i personaggi sostenuti da Virgilio Zernitz, Giorgio Naddi, Edoardo Sitavo e da Michela Pavia. Scena astratta e allusiva (la capriata-triangolo) di Piero Guicciardini, costumi di Luisa Roberto e musiche di Benedetto Ghiglia. Almeno una citazione per la bella traduzione di Daniel Vogelmann. Pubblico attentissimo.
Odoardo Bertani Avvenire, Milano, 31 Agosto 1983
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