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L'Unit� - La recensione di Aggeo Savioli
 

Sulla grande strada maestra solitudine e tormenti di Strindberg
Si deve riconoscere all'Istituto del Dramma Popolare, promotre di questa Festa del Teatro che è tra le più longeve iniziative, in Italia, nel campo specifico e in generale (siamo alla quarantaquattresima edizione, senza che, dal 1947, si sia saltalo un solo anno), di aver compiuto audaci, intendendo comunque in senso lato e aperto il concetto d'una drammaturgia di ispirazione religiosa, e poco o nulla cedendo a tentazioni confessionali, almeno nei tempi più recenti.
Un caso estremo dì arditezza è costituito dall'odierna proposta della Grande strada maestra di August Strindberg, ultimo titolo della così ricca teatrografia del geniale scrittore svedese (pubblicato nel 1909, rappresentato nel 1910), e di assai rara apparizione, a quanto se ne sa, sulle ribalte mondiali. Per l'Italia, si tratta addirittura d'una «prima» assoluta (è giusto però ricordare che Leo De Berardinis ne inseriva qualche frammento nel suo lavoro di più fresca data, e non escludeva di affrontare, un giorno, l'insieme dell'opera).
Considerato come una prosecuzione ideale di Verso Damasco, di cui ripete in effetti la struttura «per stazioni», di ascendenza medievale ma precorritrice dell'espressionismo, La grande strada maestra è per altro verso un compendio dell'esperienza artistica e umana di Strindberg, allora sessantenne (sarebbe morto
nel 1912), un bilancio solitario e tormentoso delle sue polemiche culturali e battaglie civili, un messaggio conclusivo lanciato alla società degli uomini e a Dio (ed è un appello all'Eterno a suggellare il testo). Riflessi faustiani si sono pure colti nel protagonista, denominato il Cacciatore, che nella sostanza espone, tuttavia, lineamenti autobiografici. Nel suo itinerario attraverso luoghi reali e simbolici egli incontra una serie di figure o fantasmi dei quali si sono cercati, e anche trovati, i modelli concreti, ma che sono soprattutto proiezioni della mente creativa e critica di Strindberg, incarnazioni dei suoi amori e furori, prodotti del suo spirito inquieto fino alla nevrosi; del resto, palpabili risultano i riferimenti ai suoi travagliati rapporti col mondo femminile, mogli, amanti, figlie. E se uno dei pochi momenti di tenerezza si affida qui a un profilo di fanciulla, non si forzano troppo le cose conferendo (come si fa nell'allestimento attuale) un aspetto muliebre a quel Tentatore in cui il Cacciatore s'imbatte al termine della sua parabola.
I richiami biblici e profetici (ma anche a miti e credenze orientali, nonché alle scienze occulte, che affascinarono Strindberg) non si contano, a ogni modo. Certo, visionario vero o presunto che fosse, il Nostro intuiva (non solo, si capisce, nella Grande strada maestra) in notevole anticipo fenomeni, come la civiltà delle immagini e la società dei consumi, con tutto il loro carico alienante, che sarebbero esplosi vari decenni dopo. Quanto al fatto che rincontro forse più conturbante il Cacciatore lo abbia con un Giapponese, destinato al suicidio e al crematorio, e che costui dichiari come proprio nome (da annullare, appunto, nella morte) quello della propria città, Hiroshima, ecco, sarà pure una coincidenza, ma certo doveva avere ragione Amleto nell'irridere ai limiti della filosofia studiata da Orazio.
A giudizio degli esperti, e stando in particolare a quanto ne dice il suo primo traduttore italiano Franco Perrelli, La grande strada maestra offre «una caratteristica alternanza di intensissima poesia e di prosa colloquiale», che il regista dello spettacolo di San Miniato, Mario Morini, operando su una versione e adattamento ad hoc di Enrico Groppali, ha cercato di restituire anche nei gesti e nei parchi movimenti. Una buona invenzione è che tutti i personaggi, o meglio gli attori (quasi tutti, infatti, svolgono più ruoli) si presentino in gruppo, quasi pirandellianamente, al cospetto del protagonista, per poi scomparire e riapparire, secondo la cadenza prevista, fuoriuscendo in genere da una botola che sembra accedere a regni sotterranei, a infernali recessi. Una staticità di fondo permane (accentuata magari da un involucro    scenografico piuttosto neutro), ma nel complesso la realizzazione dell'ardua impresa merita lode. Eccellente la prova di Massime Foschi, sostenuta dalla sua vocalità sempre robusta, ma capace di sottili sfumature. Apprezzabili, fra gli altri, i contributi di Carlo Simoni, Milena Vukotic, Stefano Gragnani, Giancarlo Condè, Mico Cundari. E caldo il successo.
AGGEO SAVIOLI, L'Unità , 22 luglio 1990




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