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Corriere di Firenze - La recensione di Francesco Tei
 

John Callifer, ovvero Lazzaro. I miracoli sono ancora fra noi
La presenza di Dio come mistero, come dato di fatto provocatorio e inquietante, come elemento che sconvolge la razionalità dell'esistenza («non potrei accettare un Dio semplice, un Dio che posso capire» dice James, il protagonista del dramma): questo è il tema de Il capanno degli attrezzi (1955) di Graham Greene, testo presentato dall'Istituto del Dramma Popolare alla sua 41a Festa del teatro di San Miniato. l'Istituto, e la Festal del teatro, proseguono così la loro esplorazione degli orizzonti di una drammaturgia europea legata, sia pure in forme diverse, a temi religiosi. Il capanno degli attrezzi è un testo strano, difficile da definire e da inquadrare; che sembra cambiare continuamente volto, rifiutando di lasciarsi riassumere in una visione e in un'impostazione unitarie. Sembrano coesistere liberamente differenti forme di scrittura teatrale, e diversi motivi ideali, quasi che l'itinerario tematico dell'autore si pieghi di volta in volta a pressioni diverse: non manca neanche una considerevole  componente   autobiografica, e un'ampia presenza di figure e di situazioni caratteristiche di Graham Greene. Questo, però, finisce per condurre il dramma a mancare di quella serrata e efficace coerenza che potrebbe renderne l'ordito più incisivo: episodi di grande suggestione e bellezza, e lo stesso, caratteristico sapore di «giallo spirituale» che  contrassegnano il dramma paiono navigare nell'indecisione di una struttura fin troppo aperta. Questa, almeno, è stata la sensazione provata nel vedere questa messa in scena di Sandro Bolchi: ma giustamente, crediamo, il regista (al suo ritorno tra l'altro in teatro dopo tanti anni di televisione) non ha voluto imporre al testo una chiave di lettura dall'esterno, lasciandolo libero di parlare ma anche di denunciare le sue irresolutezze. Certo la vicenda di James Callifer, prima nevrotica vittima di una radicale incapacità di vivere, poi detective dell'anima alla ricerca di un pauroso e inconfessabile segreto di famiglia, infine profeta convinto di una nuova e sottilmente provocatoria  religiosità conosce risvolti di grande interesse e momenti di suggestione profonda. Pensiamo alla figura del prete indegno e maledetto Zio William, ridotto in questo stato -però- da un prodigio e da un sacrificio d'amore (offrì infatti la sua fede a Dio in cambio della resurrezione del quattordicenne James, impiccatosi con una corda nel «capanno degli attrezzi» di casa). E pensiamo anche alla presenza e al messaggio dello stesso James dopo che si è scoperto resuscitato, nuovo Lazzaro portatore di una sua precisa ed enigmatica idea di fede, nemica di ogni certezza, dubbio sottile immancabile e perenne: una fede che è fondamento di ogni valore vitale, ma che è anche agli antipodi di ogni torpida fede tradizionale. Ma il miracolo che irrompe nella normalità, il soprannaturale che si presenta in modo prepotente distruggendo le asettiche e realistiche certezze della materia è anche qualche cosa di tranquillo, di normale, tanto da ammansire con la sua mite gentilezza anche la dura e sofferente mamma Mary. Questa del divino nell'umano è una presenza terribile, grandiosa; ma anche docile, quotidiana, amorevole, come il leone che, in sogno, si avvicina mansueto all'adolescente Anna e le lecca delicatamente la mano. Partendo dall'ambientazione domestica, nel giardino di casa Callifer, del dramma, Bolchi ha dato vita a una naturalistica e singolare messa in scena 'en plen air', in cui le aiuole e gli alberi della Piazza del Duomo sono stati integrati da alcuni elementi scenografici (diverso era naturalmente il caso per le scene previste 'in interni'). Ne è nato un tipo di dimensione scenica insolita e più diretta, colloquiale: un'idea felice e piacevole, anche se qualcuno degli attori è sembrato in difficoltà nel conciliare le regole di una recitazione 'teatrale' con questa dimensione nuova di rapporto con il pubblico (si dava l'impressione di accentuare troppo gesti e parole). La regia di Bolchi, s'è detto, non ha voluta dare un'impronta 'forte' e decisa al testo, limitandosi a mettersi rispettosamente al suo servizio. Ma, in qualche caso, ne ha lasciato attenuare la forza: non risalta quanto dovrebbe, forse, l'incalzante tensione dell'inchiesta da 'giallo' di James, e si attenua leggermente anche l'atmosfera cupa da suspense. E' stato accentuato, invece, il nerbo delle scene più 'filosofiche' e drammatiche, quali quella - memorabile - del dialogo fra James e padre William; ed è stata colta ed evidenziata con felice abilità la corposa componente di humour presente nella pur tragica figura del prete. Per quel che riguarda gli interpreti, si è avuta l'impressione che non siano stati guidati in un lavoro di approfondimento adeguato di tutti i risvolti del loro personaggio. Di Carlo Simoni si è comunque apprezzata l'efficace adesione ai toni convulsi, deboli, nervosi, ma in ogni caso sempre da 'vinto', del suo James; mentre Margherita Guzzinati è stata una Sara di buon rilievo solo nel finale. Apprezzabile, dopo un inizio monocorde, la metamorfosi quasi dimessa della mamma Callifer di Regina Bianchi, la cui faticata accettazione del soprannaturale avviene in modo quasi mite e gentile, e come in tono minore e quotidiano. Sergio Fiorentini (il dottor Kreuzer) e Enrico Baroni (John Callifer) si siono fatti ammirare per la loro classica e sicura impostazione, mentre un discorso a parte lo merita Mario Maranzana, che nel ruolo complesso e difficile di Padre William ha piegato tutti i mezzi di un pluridecennale 'mestiere' alla creazione di una figura robusta, sofferta, credibile, costruita con grande ricchezza di sfumature ma senza il minimo compiacimento e sfoggio di 'bravura'.

FRANCESCO TEI, Corriere di Firenze 18 luglio 1987




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