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Avvenire - La recensione di Odoardo Bertani
 

Estate, non di solo effimero
Autore e attore (una combinata molto frequente nel suo Paese), il gallese Emlyn Williams (morto, ottantaduenne, lo scorso anno) ebbe molta popolarità di qua e di là dall'Oceano, particolarmente come interprete delle proprie commedie; fu autore di gialli, ma anche di testi più riflessivi. Grande fama gli dette Il grano è verde, successivo al quale è Il vento del cielo (1945), scelto dall'Istituto del dramma popolare per la sua quarantaduesima Festa del teatro.
E' una commedia anomala, quanto al tema, avendo riguardo alla data in cui fu composta. Ma questo suo anacronismo si fa durata, contemporaneità. Williams, in una società allora con tutte le ferite della guerra aperte (e oggi non meno attraversata da mali, dilaniata da guerre locali, in preda a crescenti paure ecologiche) parlava di un tema perenne: il dolore, ravvisando l'unica speranza di ritrovare il canto in un ritorno di Cristo.
Questo ritomo si fa concreto in Il vento del cielo dove, in un Galles retrodatato al 1856, anno successivo a quello della guerra di Crimea, la presenza di un adolescente risolverà le angosce sedimentate per tanti lutti, restituendo la vita ai morti e rigenerando al paese la gioia di vivere e di amare. Si assumerà lui tutto il male e il dolore, sino a morirne, dopo aver dichiarato di aver consapevolmente compiuto una missione voluta per lui dal padre.
A fargli rivelare l'identità saranno stati due eccentrici personaggi circensi, in cerca di nuovi fenomeni e richiamati lì, a Bestin, da voci correnti. Verranno alla casa del ragazzo attirati altresì da una musica che si diffonde nell'aria, e crea un clima di grazia, di meraviglia e di attesa. Dopo aver lasciato perdere i loro propositi di ingaggio, assisteranno ai prodigi e alla morte sacrificale del giovane, su cui si accanirà la peste da lui tolta agli altri; per qualcuno, l'evento sarà anche l'occasione per mutar vita e ritrovare la propria via autentica.
Siamo di fronte a una commedia leggera e fragrante in cui la vita reale — fatta di faccende, amori, affari, dolori — si mescola con un sentimento più trepidante e smarrito del mondo e del suo mistero. Ad ognuno è lasciata la libertà di credere o di chiedere alla ragione tutte le prove per contrastare i fatti non riducibili alle sue spiegazioni; ma l'avvertimento è dato. Nasce così la favola, come sublimazione del vero. C'è uno spessore, una dimensione nell'uomo, che non si possono ridurre a dati per computer. Non tutti i fatti possono entrare in una logica di causa ed effetto, e il mondo resta soprattutto dipendente dalle leggi imperscrutabili di Dio.
Nei momenti più cupi, bisogna saperlo cercare e si scoprirà che egli non è molto lontano: il ragazzo non è una reincarnazione, è una epifania, e continua.
Questa riapparizione di Cristo è trattata da Williams con delicatezza, con pudore: il misticismo ha i colori della naturalezza, i personaggi non si esaltano e vivono agonisticamente il loro quotidiano attraversato da un imprevisto che via via si fa metafisico. E ottenere l'equilibrio fra realtà e soprannaturale non era facile, se non evitando — come fa l'autore — di calcare i toni e di salire sul cavallo del pietismo isterico. Williams si affida a scorci, a brevi soste dell'anima, a fantasie presaghe, a sguardi sull'intimo delle persone, senza negarsi all'umorismo britannico che è senso della misura e rispetto degli altri.
Il surreale è trattato con fermezza discreta, le umane vicende lo sono con partecipazione e pietà, gli animi conservano il loro riserbo e la loro problematicità; la convinzione a dover vivere secondo carità nasce a poco a poco dall'intimo, non da prediche altrui. E non si fa rumore, si riflette. Così rivalutato il soprannaturale come ipotesi di spiegazione del mondo, Williams ci dischiude un paesaggio dolce e quieto, dove aver fiducia e sperare.
Affidandosi per la regia a Franco Merom, lo spettacolo si compone in una sequenza di quadri dove tutto è stilizzato, proposto fuor da ogni verismo e dialettalità. La pulita, cordiale rappresentazione si avvale di una recitazione assai equilibrata ed efficace, precisa e non snervata, esperta ma non gravata da trucchi. Nunzia Greco ed Angela Cardile, Arnoldo Foà ed Aldo Reggiani formano un quartetto di ben accordate linee espressive, con il valido concorso di Alessandra Celi e di Paola Bacchetti. La traduzione di Marco Bongioanni e Franco Meroni è il supporto spigliato e attento alla singolare vicenda, dove il meraviglioso ha piena cittadinanza, legittimato come è da una partitura nobile e sentita.

ODOARDO BERTANI, Avvenire 19 luglio 1988




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