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Il Secolo d'Italia - La recensione di Mario Bernardi Guardi
 

INQUIETANTI MISTERI DEL MARE
Viaggiò per tutti i mari l'americano Herman Melville, e dal mare, dagli uomini che anni ed anni lo abitano senza mai arrivarne a scoprire per intero i misteri, trasse i materiali, fluidi e pesanti come l'esistenza, delle sue grandi invenzioni narrative. Si pensi alla forza epica di Moby Dick, l'immensa balena bianca in cui il capitano Achab insegue non solo il mostro che gli ha spezzato la gamba, ma anche le proprie ossessioni, una volontà di potenza che sfida la Natura e Dio e una morte annunciata da mille vertiginosi segni, fino allo sprofondamento nell'abisso: lui, il capitano, con la sua nave, il suo equipaggio, e con lei, al cui dorso finisce crocefisso dalle corde degli arpioni. Ma si pensi anche a Billy Budd, «una storia vista dal di dentro». Romanzo breve o racconto lungo che sia, che fu adattato a testo teatrale da Enrico Groppali e portato sulla scena da Sandro Sequi, è stato presentato qualche sera fa alla stampa, in anteprima, sulla storica Piazza del Duomo di San Miniato, occasione è la 51° Festa del Teatro, un appuntamento di tutte le estati, da quando, in questa bella cittadina toscana che usciva profondamente ferita dalla guerra e dalle lotte fratricide, un pugno di laici e di uomini di Chiesa pensò a un teatro dello spirito che tutti gli anni, puntando su un testo di alta scrittura e di intense risonanze, raccontasse l'uomo, le sue discese agli Inferi, la sua tenace nostalgia del Padre, le sue contraddittorie aperture alla Salvezza Un teatro non dogmatico, non didascalico, non programmaticamente edificante: ma tessuto di interrogativi sinceri e di un'altrettanto genuina pietas. In cinquantun anni, i risultati, come è ovvio, non sono stati omogenei: ma l'impegno, quello sì, non è mai venuto meno e tutti gli incontri hanno offerto occasione per pensare. Con Billy Budd ci si trovava di fronte a una scommessa forte, a un vero e proprio azzardo: e don Luciano Marruca, direttore dell'Istituto del Dramma Popolare, ha ricordato, parlando con la stampa, la lunga esperienza dei dubbi e delle perplessità che lo tenevano avvinto, finché l'entusiasmo del produttore Franco Ghizzo, direttore del Teatro Nuovo di Milano, la qualità del testo teatrale di Enrico Groppali e la serietà del lavoro di regista, attori, scenografo ecc. non lo convinsero che questo Billy Budd meritava di essere visto e apprezzato.
Storia di mare, quella che viene raccontata. L'azione si svolge a bordo del vascello Indomita, della marina britannica, nell'agosto del 1798. E cioè in un periodo in cui le fiamme della Rivoluzione francese, alimentate dalla irresistibile ascesa di Napoleone Bonaparte, divampavano per tutta Europa. E, bruciando in ogni dove, brillavano anche sui mari, suscitando speranze di riscatto e di rigenerazione: pochi si rendevano conto che all'ordine e all'autorità del Trono e dell'Altare avrebbero fatto seguito ben più ferrei dispotismi; molti speravano nella libertà, nell'uguaglianza, nella fraternità, in un avvenire libero da catene, e se Dio e il Re lo erano, ebbene, che la furia dei rivoltosi li travolgesse.
Ed ecco che, mentre vènti di sovversione soffiano tra le ciurme, facendo balenare l'ebbrezza dell'ammutinamento, a bordo dell'Indomita viene arruolato il giovane Billy Budd. E' un trovatello che nulla sa dei suoi genitori e delle sue origini, tranne il fatto di essere stato trovato in un cesto di seta. Ma è bello, forte, laborioso, ha lo sguardo pulito, diritto, ingenuo; rifugge dal male con tale nativa istintività che dinnanzi all'ingiustizia la lingua gli si paralizza; il capitano Edward Fairfax Vere trova per lui immediatamente l'affetto di un padre; i marinai sono incantati dalla sua voce melodiosa, che li trascina nella magia di antiche ballate in cui si narrano vicende senza tempo. Ma c'è il maestro d'armi John Claggart, che «non riesce a tollerare il sorriso disarmante dell'innocenza»: è una minaccia troppo grossa per il Male su cui si regge il mondo e che deve dettar legge anche su una nave, a dispetto della retta coscienza e delle buone intenzioni del capitano Vere. Così è necessario che Billy Budd sia calunniato, che la sua immagine di purezza venga sconciata, che di lui si dica il peggio che si può dire di un marinaio: è un traditore, forse una spia, che sobilla la ciurma contro il capitano. Chiamato a discolparsi, Billy non riesce a parlare: la mostruosità dell'accusa annichilisce la sua assoluta, disarmata onestà. Ma il silenzio, teso in un'eccitazione spasmodica, si concentra in un gesto: il pugno teso contro Claggart, il mentitore; il pugno che inesorabilmente lo abbatte.
Innocente, Billy Budd ha ucciso: il capitano è costretto a condannare questo gesto, perché altrimenti non ci sarebbe più legge, non ci sarebbe più disciplina. E si tratta di una sentenza di morte, pronunciata con immenso dolore. Ma Billy non ha parole d'odio: muore da vittima consacrata, senza terrore, senza spasimi. Dopo l'impiccagione, il corpo del giovane, avvolto nell'amaca, viene affidato al mare. I compagni che hanno assistito desolati e ammutoliti, già sanno che Billy tornerà e che eterna sarà la sua leggenda. Come si vede, un testo suggestivo, con tante voci: la Storia e il Mito, il Bene e il Male, l'Elezione e la Condanna, l'Innocenza e la Colpa. E le eterne domande sul Peccato e sul Destino. Ricca di indubbio fascino, nell'insieme, la resa teatrale: l'immensa nave di legno, ideata da Pietro Cascella, e che riempie il palcoscenico, trascina subito lo spettatore in un'aura magica; Corrado Pani è il mostro Claggart, ma anche un mostro di bravura, quanto a Massimo Foschi come capitano Vere e al promettente Maximilian Nisi come Billy Budd, se non riescono a stare alla sua altezza, tuttavia la loro qualità interpretativa è notevole. E non sono da meno gli altri attori, persuasivi anche come figure nei costumi disegnati da Cordelia Van Den Steinen. Ma forse questo apologo su angeli e demoni, che Melville scrisse nel 1891, poco prima di morire, aveva bisogno di una drammatizzazione ancor più studiata nei suoi ritmi e nelle sue pause, perché il paesaggio interiore dei protagonisti vivesse di più intensi tocchi e vibrazioni, anziché esprimersi nella rapidità di un profilo che scatena l'emozione e fa pronunciare il giudizio.
MARIO BERNARDI GUARDI, Secolo d'Italia, 22 luglio 1997




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