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Il Giorno - La recensione di Ugo Ronfani
 

La religione separa il ricco e il povero
L'anno scorso fu ripreso Il potere e la gloria di Greene, già proposto sui colli sanminiatesi. Quest'anno l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato attinge ancora al serbatoio della memoria e per la sua 46esima edizione presenta Ordet («La Parola»), un classico del Teatro dello Spirito scritto nel '25 dal danese Kaj Munk, che l'aveva tratto da un suo romanzo.
L'impresa, temibile, di competere su una scena con il capolavoro di Dreyer se l'è assunta un nostro illustre attore, Mario Scaccia, che, muovendo dalla traduzione di Annuska Palme Sanavio, ha firmato anche l'adattamento e la regia, per conto della OSI di Paternieri e Zammarano; scenografo Mario Padovan, costumista Rosalba C. Stamatopoulos, autore delle musiche Federico Amendola.
Si potrà auspicare - noi siamo fra questi - che l'IDP di San Miniato guardi più al futuro che al passato, che immerga il suo pubblico in una spiritualità aderente alle gravi questioni del nostro tempo, così come avevano voluto i D'Amico e i Ruggini. Ma di questo si dichiarano consci anche il presidente e il direttore artistico, Silvano Vallini e Luciano Marrucci, i quali annunciano iniziative volte ad attualizzare la problematica del Teatro dello Spirito. Un teatro che don Marrucci definisce «non archeologico, ma capace di interiorizzare i dati esterni del presente».
In Ordet Munk ha inteso affermare la realtà del miracolo, che soltanto il sonno della ragione ostacola. L'impianto della vicenda è naturalistico, con echi strindberghiani. Siamo in Jutlandia, dove un conflitto religioso oppone il ricco agricoltore Mikkel Borgen al povero sarto Peter. Mikkel è un seguace del vescovo luterano Grundtvig, che predica un cristianesimo primitivo, paganeggiante e vitale; Peter è un adepto della setta dei pietisti, portati alla fede austera e alla penitenza. Il primogenito di Mikkel, felicemente sposato alla dolce e saggia Inger, non condivide le idee del padre; il secondogenito Johannes si è rifugiato in un delirio mistico dopo la morte per disgrazia della fidanzata, e si crede la reincarnazione del Cristo, mentre il terzogenito Anders ama la figlia del sarto, Anna. Di qui le tribolazioni del vecchio Mikkel, che volgono in tragedia quando Inger muore di parto. Ai funerali Peter - che s'era aspramente scontrato con Mikkel per via dei due innamorati
- fa sapere che approverà il matrimonio; sopra la tristezza aleggia alla fine la follia religiosa (tale la considerano sia il pastore che il medico) dì Johannes, al quale la nipotina Maren chiede di fare resuscitare la madre. Davanti al cadavere Johannes ripete l'esortazione del Cristo sulla tomba di Lazzaro; e Inger riappare viva, a testimoniare la potenza infinita della fede.
Mario Scaccia ha sforbiciato nella diatriba teologica, per noi oscura, impoverendo così il dibattito delle anime: ma si poteva fare diversamente? Ha puntato invece sulla saga famigliare, sulla anormalità profetica di Johannes (cui dà allucinato, convincente rilievo il giovane David Gallarello) e sui rapporti emozionali e psicologici di un mondo contadino alle prese con il soprannaturale, accortamente presentato alla fine fra reale e immaginario. Il feuilleton misticheggiante si svolge in un impianto scenografico che mostra, con nordiche stilizzazioni, la fattoria dei Borgen e il laboratorio del sarto, separati dalla roccia del settarismo religioso. Il decoupage è accorto, come hanno indicato gli applausi a scena aperta. Scaccia attore ci offre una magistrale interpretazione del patriarca Mikkel, tra infantili collere e attoniti abbandoni. Consuelo Ferrara sa esprimere la dolcezza generosa di Inger; la piccola Giada Veracini è una deliziosa Maren; Maggiorino Porta umanizza il rigorismo di Peter; bene il Farnese e il Chioccagli altri due figli di Mikkel, e invece sopra il rigo Danny Cecchini e Carlo Greco.
UGO RONFANI, Il Giorno 21 luglio 1992




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