Questo sito utilizza cookie tecnici, di profilazione propri e di terze parti. Se continui la navigazione, se accedi ad un qualunque elemento di questa pagina (tramite click o scroll), se chiudi questo banner acconsenti all'uso dei cookie.
Chiudi ed Accetta Voglio saperne di più
 

ARCHIVIO DI TUTTE LE EDIZIONI:

cerca all'interno del sito:

SEGUICI SU:


facebook youtube email



Ministero

Regione Toscana

ARCHIVIO
 
La recensione di Roberto Rebora
 

Greene : una violenta carità
È notevole in Graham Greene la preoccupazione dei rapporti e dei valori nella realtà da lui affrontata con l'intenzione di ricavarne notizie utili a un dibattito spirituale. Nella realtà egli cerca tutto quello che apparentemente è più lontano dallo spirito per affermare la presenza di Dio accanto al continuo errore, alle volte miserabile ed abietto errore, degli uomini. Ma il morale e lo spirituale di Greene non dipendono da schemi inerti di un'edificazione senza memoria d'immagini e senza libertà di sorprendenti riconoscimenti; dipendono invece da una chiara misura di carità che individua la realtà nei trasalimenti e nei tormenti del bene e del male testimonianti, per dir così, la possibilità costante di Dio.
Direi anche che in Greene la visione realistica, trasfigurata da una pietà spietata (se si può dire) che non nasconde nulla, indica la necessità di una coscienza del quotidiano e degli uomini quotidiani come se il partecipare a una situazione umana che li determina, li opprime e li prova, fosse indispensabile non solo alla loro valutazione ma anche al trasferimento dei loro peccati sul piano della carità. Il cattolicesimo dello scrittore inglese è fatto di violenza ed è proprio violento il suo sguardo sugli uomini e violente sono le misure che ne ricava, viltà,   delitto,  ambiguità,  disprezzo,  cinismo, che sembrano chiudere il suo mondo nei limiti di una tetra prigione. Proprio da questo punto sembrano partire le sue possibilità di costruzione, dal non falsificare la realtà e i suoi rapporti per una falsa e colpevole forma di pietà non partecipata. Il falso ordine è peggiore del disordine è stato detto, e allora cominciamo a guardare apertamente intorno a noi e diciamo quel che vediamo.
Nell'adattamento teatrale del suo romanzo Il potere e la gloria (non starò a ripetere le note osservazioni sulle riduzioni da opere narrative) il protagonista è un prete, fuggiasco come tutti i preti durante una rivoluzione messicana, vigliacco, ubbriacone, unito ad una donna dalla quale ha una bambina, in fuga ancora, pieno di terrore, con le sue ultime possibilità concrete tese a procurarsi alcool per stordirsi e vino per la messa da celebrare clandestinamente. Egli è l'unico prete rimasto nel paese.
Si può dire che nelle bottiglie di vino che riesce a trovare violando la legge egli colloca la sua misura intoccabile di sacerdote che sente come staccata dal suo fallimento umano. Che poi non è un fallimento, poiché nell'angoscia del decadimento e della viltà fisica e morale, il prete rimane aggrappato alla sua fede con forza elementare disperata, con il rispetto apprensivo di chi si sente come un intruso in casa d'altri. E si può dire che in questa forza sulla quale egli misura la propria abbiezione non mutandola, sta la riserva morale che riesce a farlo difensore della propria funzione di sacerdote fino al sacrificio. Al quale egli arriva attraverso una serie di vigliacche furberie, di miserevoli sotterfugi, di manifestazioni di terrore e di viltà, ma insieme con una completa sicurezza del percorso da compiere, la sua passione, poveretto, che la viltà non tocca nel suo valore.
Nella bellissima ultima scena del dramma, quando il prete viene catturato da un tenente di polizia che lo insegue da tempo, assistiamo a un colloquio tra i due dove la pietà, gli errori, l'amore assoluto del persecutore che agisce in difesa della libertà umana attraverso il bene della coscienza sociale sono molto vicini all'amore assoluto e agli errori del prete. I due si parlano senza odio, con molta comprensione del dolore di ognuno, e dicono del bene e del male, della pietà, della fame, della gioia, della miseria, della coscienza. Si ha veramente la sensazione che un niente li possa unire. Poi il prete, disperato poiché non porta a Dio che scorie, si avvia alla morte trascinato dai soldati, dato che non si regge in piedi dal terrore. Crede di essere l'ultimo prete, ma un giovane che porta una valigetta esce dall'ombra e bussa a una porta pronunciando una frase convenzionale.
Un dramma, questo di Greene, dove qualche volta la parola non corrisponde all'intenzione, voglio dire che non sempre trova il proprio stato di libertà assoluta per precisare le proprie dimensioni. Ma dramma di molto interesse, dove quanto viene chiamato liberalismo teologico è la strada allarmante della carità. I fermenti che contiene, di verità e di coscienza, esprimono una situazione spirituale che ha profonde radici nella vita contemporanea. L'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, al nono anno di vita attiva e di manifestazioni che tornano ad onore di chi le ha promosse, ha dimostrato un encomiabile coraggio nella scelta di questo testo dove il cattolicesimo si misura prima di tutto nel rischio. Lo spettacolo è stato eccellente. In una bella e pratica scena di Gianni Polidori il regista Luigi Squarzina ha tenuto la recitazione in un tono realistico, per niente emblematico, che è riuscito ad essere fortemente allusivo quando il segreto della realtà conteneva l'urgenza dei riferimenti assoluti. Un'ottima prova ancora. Aroldo Tieri (il prete) è stato bravissimo. I pericoli contenuti nella sua bella voce sono stati superati con una adesione, e una comprensione, continua alla realtà fisica del personaggio. Proprio sul corpo terrorizzato del prete inseguito, Tieri ha costruito le dimensioni più segrete dell'anima sua. Ed ha coronato il suo ammirevole impegno con i risultati superiori dell'ultima scena.
Ivo Garrani (il tenente di polizia) sta diventando un gran bell'attore, uno dei primi del nostro teatro. Bisogna dirlo, per incoraggiarlo nella sua linea di recitazione non avviata, se Dio vuole, alla adorazione di se stesso. È stato il degno competitore di Tieri e con lui ha diviso il successo. Sono da ricordare l'impetuosa Zora Piazza, la brava Maria Fabbri, Andrea Matteuzzi che ha disegnato con intelligente rilievo un tipico personaggio, Checco Rissone sempre padrone dello stile opportuno, Mario Ferrari, Alida Cappellini, Vinicio Sofia, Achille Maieroni, AlfredoBianchini. Quando si saranno ricordate le musiche di Fiorenzo Carpi e i costumi di Gianni Polidori, si saranno completati gli elementi di forza di uno spettacolo positivo.
Roberto Rebora, Sipario, Milano, Settembre 1955




© 2002-2021 fondazione istituto dramma popolare di san miniato

| home | FESTA DEL TEATRO 2023 | chi siamo | dove siamo | informazioni e biglietti | scrivici | partner | sala stampa | trasparenza | sostieni | informativa privacy | informativa cookie |

 

Fondazione Istituto Dramma Popolare San Miniato
Piazza della Repubblica, 13 - 56028 San Miniato PI
P.I 01610040501

Home