San Francesco in stile brechtiano e un Puccini tra apatia e frenesia
Spettacoli sotto le stelle. L'offerta della 52a Festa del Teatro a San Miniato, sempre imperniata su di un testo con valori religiosi o perlomeno morali, è quest'anno L'uomo che vide, lavoro che Piero Ferrero e Krzysztof Zanussi - questi, anche regista - hanno tratto da un romanzo del francese Joseph Delteil (1894-1978), autore a suo tempo di «Jean d'Arc», da cui Dreyer ricavò il più ammirato dei film sulla Pulzella. L'eroe questa volta è San Francesco, i fatti della cui vita, infanzia scioperata, guerra, prigionia, conversione, emancipazione dal padre e dalle mollezze, fondazione dell'ordine, amicizia con un paio di giovani sante, traversie con le autorità ecclesiastiche, morte, sono raccontati in stile quasi brechtiano, con un narratore ironico ma accattivante e i personaggi che escono da se stessi per commentarsi. La scena di Luigi del Fante è spoglia, una piattaforma con gli spettatori su tre lati. Semiantichi (saio e scarpe da tennis) i costumi di Laura Borgarucci, piacevoli le musiche di Andrea Nicolini, anch'esse fra medioevo e rock-folk, adeguate le luci di Andrea Travaglia; e soprattutto, buon ritmo della narrazione, che procede per episodi presentati velocemente e senza troppo approfondire, ma con tonico buonumore: in questo va dato merito al pivot Carlo Simoni, che vestito come un elegante fattore di oggi e spesso a cavallo di una bicicletta ha il compito di introdurre e commentare dal punto di vista di un nostro contemporaneo, ammirato ma non sempre del tutto convinto. Maximilian Nisi è un Francesco appassionato, quasi un Romeo in calzamaglia nera, Maggiorino Porta, un solido Bernardone, gli altri sono tutti adeguati, e i 90' scorrono con l'agilità di una riduzione a fumetti.
Altra tappa fatidica dell'estate, la Versiliana di Marina di Pietrasanta, inaugurata anch'essa da una novità, Puccini di Giancarlo Sepe. L'altr'anno Sepe ebbe qui un buon successo con «E ballando, ballando», mezzo secolo di storia attraverso numeri di ballo senza parole. Questo «Puccini» ha dimensioni più ridotte, solo nove interpreti e quasi nessuna linea narrativa, nonché un lungo inizio in cui non succede quasi niente (circa 20' sugli 85' complessivi), messo lì certamente per allungare la serata. Cinque donne in eleganti abiti da sera di Sabrina Chiocchio, lunghi con guanti, in varie gradazioni di viola, più quattro uomini di cui tre in smoking e uno in bianco da ufficiale di marina, sembrano annoiarsi anche davanti ad altrettanti televisori, finché l'arrivo di una musica, prima solo ritmica, quindi trascinante, di Puccini (la morte di Iiù, l'arresto di Des Grieux), li riscuote dall'apatia e in qualche modo li costringe all'azione, li sconvolge: il gruppo si mette a portare mobili, a giocare a nascondarello dietro, siepi, a un certo punto è frustato da una pioggia battente che cade all'improvviso. Tutto ciò sarebbe, anzi è, eccellente materia per un balletto, ma avendo degli attori, sia pure molto duttili e coordinati nei gesti, e non dei ballerini, Sepe non può far fare loro molto altro che spostarsi silenziosamente, sia pure con bel gioco di insieme, nonché illuminarli in modo suggestivo, variare gli effetti cromatici cambiando i toni del fondale, ecc: Anghelopulos, insomma, là dove ci vorrebbe Béjart. Il risultato malgrado l'eleganza dei singoli momenti è monotono, e la reazione del pubblico non va oltre una rispettosa freddezza.
Masolino d'Amico, La Stampa, 19 luglio 1998
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