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La Stampa - La recensione di Masolino D'Amico
 

Walcott l'ottimista batte anche Satana
Bizzarra iniziativa questa dell'Istituto del dramma popolare, che dopo avere dedicato per anni e anni la sua annuale festa estiva del teatro all'allestimento di un testo di forte contenuto morale e spesso religioso, da eseguirsi soltanto qui e per pochi giorni, offre stavolta una fiaba caraibica con musiche, canti e danze, destinata inoltre a girare per più piazze estive e anche ad essere ripresa questo inverno. La fiaba in questione si intitola Ti-Jean e i suoi fratelli e la scrisse nel 1958, dunque quando aveva 28 anni, l'ultimo premio Nobel, Derek Walcott, originario delle Piccole Antille e prescelto dall'Accademia di Svezia, sempre pachidermica con le sue allusioni, proprio nell'anno quadricentenario dello sbarco di Colombo.
Questo non sgradevole Ti-Jean, leggibile anche in un tascabile Adelphi nella stessa traduzione di Annuska Palme Sanavio andata in scena a San Miniato (dove rimarrà fino al 22 luglio), racconta di tre fratelli, Gros-Jean detto così perché forzuto ma stolido (l'originale è in inglese con qualche parola francese), Mi-Jean che è l'intellettuale, e il piccolo ma sveglio Ti-Jean, i quali a turno delegati dalla madre accettano la sfida del diavolo (sotto le vesti di un piantatore bianco). La sfida consiste in una gara a chi perde la pazienza per ultimo, e il diavolo sconfigge i primi due fratelli, e li divora; ma il terzo lo costringe poi a farli resuscitare, e a fornire a tutti un futuro felice. Incarnazione di ottimismo, Ti-Jean rimarrà visibile a tutti come l'Uomo nella Lima (personaggio del folklore anglosassone), curvo sotto il suo fascio di stecchi.
La vicenda, rievocata da una rana e commentata da altri animali - un grillo, un uccello, una lucciola - si avvale anche di melodie afrocubane di André Tanker, composte per un'esecuzione a Trinidad nel 1970, assai benvenute, ancorché scarse e, almeno qui, registrate su nastro. La parte musicale comunque non è preponderante in questo spettacolo, dove anche la recitazione ha un'importanza secondaria, dato il genere stesso della fiaba, che non prevede troppe evoluzioni psicologiche; le due ore (più intervallo) di Ti-Jean dipendono dunque dalla capacità di evocare su di un palcoscenico il mondo magico di questo straordinario crocicchio di culture, coi suoi colori e con i suoi stupori oltre che con le parole e i suoni previsti dagli autori. E qui direi che l'impresa era superiore alle possibilità di qualsiasi nostra formazione: quali nostri attori o ballerini possono risultare convincenti in parti concepite per negri col voodoo nel sangue? Comprensibilmente, Sylvano Bussotti, autore di luci scene e costumi oltre che regista, l'ha pertanto buttata più sul surreal-fastoso alla Cocteau-Dior che sull'etnico, con un ambiente dominato da una specie di grotta-paniere  con  tre  enormi uova dalle quali fuoriescono i fratelli, e con mises assai eterogenee, ballerine-acrobate con piume e bodies serpentini, diavoli con elmi e gilet da pirata, il Piantatore in calzoni bianchi e giacca da generale napoleonico - e senza alcun tentativo di fingersi negri da parte degli attori, alcuni dei quali se la cavano bene, massime Gianni De Feo che è un Ti-Jean dalla voce melodiosa, ma anche Antonio Fabbri che è la rana, Antonello Chiocci che è Gros-Jean (non però Victoria Zinny, improbabilissima vecchia madre con la sua tenuta zingaresca e il suo accento di tutt'altri lidi).
Qualche apparizione così è spassosa; ma la forzata rinuncia ai sapori anche linguistici del testo alla lunga si rivela un ostacolo insuperabile, e così anche la curiosità di vedere in panni tanto insoliti Remo Girone, a lungo irriconoscibile sotto vari camuffamenti e con voce spesso contraffatta, finisce per cedere alla domanda sul perché di tutto ciò. Prevedere il cui esito durante il lungo ciclo di repliche annunciato esula dei poteri del cronista, al quale non resta che riferire della cordiale accoglienza, almeno la sera della prima, da parte di un pubblico ben pasciuto.
MASOLINO D'AMICO, La Stampa 18 luglio 1993




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