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La recensione di Mario Raimondo
 

Il destino teatrale di Georges Bernanos
L'incontro di Georges Bernanos con il palcoscenico è avvenuto sotto il segno del caso — così, almeno, parrebbe. I dialoghi delle Carmelitane, composizione drammatica di straordinario rilievo e di profonda suggestione, nacque come scenario cinematografico e solo dopo la morte dell'autore trovò la via del teatro, attraverso l'adattamento di Albert Beguin. Ora, ed è questa l'occasione del nostro discorso, è un romanzo di Bernanos, il primo, Sotto il sole di Satana, ad essere guidato da Diego Fabbri e Claudio Novelli ad un suo irresistibile appuntamento teatrale; un'altra volta il caso, dunque — così, almeno, parrebbe.
La verità è che non c'è nulla di meno casuale di questo destino teatrale dell'opera — forse meglio: dei personaggi — di Georges Bernanos (e la trasposizione filmica del Diario di un curato di campagna, è una conferma in più, seppure indiretta), e che semmai c'è da stupire che esso si realizzi, in fondo, con tanta avarizia e che riguardi, a tutt'oggi, così pochi titoli nel complesso dell'opera bernanosiana.
In effetti, il territorio rischiosamente cristiano su cui vivono i personaggi di Bernanos, la sostanza di tragedia che è nel nucleo della loro avventura, quel collocarsi sempre sugli esposti crinali battuti dalle bufere del male, il dibattersi drammatico nella grande scelta che ha per posta Dio, sono altrettanti elementi di un processo dialettico che sembra indirizzarsi prepotentemente alla dimensione della scena, per chiudersi nei suoi vincolanti confini e, insieme, per esaltarsi nella sua irrepetibile forza di comunicazione.
Con ciò non si vuoi dire che la riduzione di un romanzo bernanosiano alla struttura di un dramma sia cosa agevole; al contrario. Ma ho parlato più sopra di «personaggi di Bernanos», proprio per indicare l'elemento diretto su cui giocare in questa trasformazione dall'opera narrativa alla pièce di teatro.
È il caso, mi sembra, di Sotto il sole di Satana.
Chi abbia appena presente il romanzo non potrà non ricordare il ritmo severo della narrazione e insieme il ribollire appassionato dei motivi che ne partecipano; né gli sarà riuscito di dimenticare come i personaggi si districhino nella selva degli accadimenti come in una lotta feroce che impegna per ciascuno la propria coerenza, la propria natura d'uomo, la propria anima.
Ora, mentre è impresa disperata restituire sulla scena la sottigliezza stilistica e la suggestione spirituale delle pagine di Bernanos, può essere affascinante l'idea di dare corpo ai personaggi ed evidenza concreta alla lotta che essi ingaggiano sulla linea tragica della salvezza e della perdizione.
In questa direzione, Diego Fabbri e Claudio Novelli hanno guardato a ---Sotto il sole di Satana--- soprattutto come ad una occasione per riproporre la condizione drammatica dell'essere cristiani ed hanno gettato sulle spalle dell'abate Donissan — il personaggio dei personaggi bernanosiani: il suo primo prete — l'angoscia, la forza e la santità di questa condizione.
L'inferno non è una favola per bambini. Il Maligno — l'Altro — è ogni giorno tra noi a giocare una mano della sua eterna partita con Dio. Donissan, prete goffo, prete incolto, prete capace della sofferenza del cilicio ma incapace dell'amabilità del mondo, è continuamente tentato da Satana, che sente nella sua santità «di ferro e di fuoco» l'avvertimento di una ostilità senza scampo, ma anche un segreto richiamo, la possibilità di una ardente consumazione, di una debolezza forse decisiva. La partita tra Donissan e l'Altro è impegnata intorno alla fragilità di Mouchette, intorno alla sua disperazione di peccatrice bambina, intorno al suo doloroso rifiuto del mondo, resole insopportabile da ciò che chiamano il piacere. Che Donissan strappi Mouchette alla tenebra eterna è solo un segno che anticipa la sua vittoria definitiva sulla forza del male: una vittoria che soprattutto si conta in dolore, in passione, in inquietudine.
Questo è ciò che del romanzo bernanosiano Fabbri e Novelli hanno conservato e restituito per la scena. La struttura drammaturgica è quella, cara a Diego Fabbri (e usata del resto anche da Claudio Novelli ne Il Giudizio, l'opera che lo segnalò tre anni fa, e seppure indirettamente ne I condottieri), del processo e dell'inchiesta; essa consente di far centro su Donissan e di organizzargli attorno gli episodi della sua battaglia e della sua passione, consegnando ciascuno di essi alla illumuiazione di una apertura sulla ricchezza del romanzo che così ci è suggerito nella sua complessità di giudizio, oltre che nella violenza spirituale incarnata scenicamente in Donissan.
È un felice risultato, di stile e di sostanza drammatica. E nella seconda parte, quando la figura di Donissan assume tutto lo spessore di una presenza inquieta e inquietante, il dramma restituisce l'emozione delle più alte pagine di Fabbri — il segno del peccato, il dolore del mondo, la condizione del prete: Processo a Gesù, Veglia d'armi, Inquisizione. È una conferma in più della non casualità, o meglio della necessità del destino teatrale di Bernanos, quando la mediazione si compia attraverso una voce che ripete la stessa profonda intuizione della sorgente cristiana del dramma umano.
Rappresentato a San Miniato per la annuale festa dell'Istituto del Dramma Popolare, Sotto il sole di Satana ha avuto in Giulio Bosetti un interprete di straordinaria penetrazione e in Josè Quaglio un regista attento ad una composizione geometricamente severa dello spettacolo. Servito da una scena felicissima di Misha Scandella — un praticabile suggestivo e funzionale —, lo spettacolo si è snodato con ritmo sicuro, articolandosi nelle diverse stazioni fino alla grande accensione drammatica del secondo tempo. Ho già accennato a Giulio Bosetti: il suo Donissan è come bruciato da un'intransigenza intcriore, così alto, scavato, inelegante, appassionato — non c'è dubbio che egli rappresenti l'eroe di una milizia aperta a tutti i rischi, forte soltanto del desiderio della Grazia. Adriana Asti era la dolente Mouchette ed ha saputo trarre dal fondo della sua risentita natura d'attrice, una sbalorditiva immagine della disperazione del male, una sconvolgente rappresentazione di un non accettato destino di dolore e di perdizione. Le tre figurazioni del Maligno hanno avuto il vigore di Vittorio Sanipoli; Fosco Giachetti era l'autorevole prelato Demange e Augusto Mastrantoni il sottile Menu-Segrais; Attilio Cucari e Diego Michelotti completavano la distribuzione.
Lo spettacolo ha raccolto per sei sere, a San Miniato, il consenso di un pubblico verso il quale andavano le parole di uno dei maggiori scrittori cattolici del nostro tempo e, con esse, l'eco di una inquieta ricerca per cui è religiosamente vivo lo spirito contemporaneo.
Mario Raimondo, La Fiera Letteraria, Roma, 4 Luglio 1965




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