Si è già detto della grande capacità che possiede Elena Bono di far rivivere età da noi ormai lontane, penetrandone con estremo acume lo spirito. Questo avviene anche ne “I Templari” (EMMEE, Recco, 1986), un dramma in cui ciò che subito colpisce è la bravura che quest’autrice dimostra nel darci uno spaccato di vita del tardo medioevo, con tutti i problemi che l’agitarono; e di farci di essi pienamente partecipi, quasi si trattasse di fatti accaduti ai nostri giorni.
Siamo nel marzo del 1310, ed è in atto, dal 13 ottobre del 1307, lo scontro tra Filippo il Bello, re di Francia, e l’Ordine dei Templari, formato da monaci-soldati, sorto all’epoca delle Crociate per la conquista dei Luoghi Santi.
I Templari sono accusati di eresia, di idolatria, di sodomia e di altre pratiche immonde, e contro di essi è stato imbastito un processo che si concluderà con la confisca dei loro beni e con la condanna al rogo del Gran Maestro dell’Ordine, Jacques de Molay, che verrà giustiziato il 18 marzo del 1314 su un’isoletta della Senna.
Il dramma si svolge sulla spiaggia tirrenica, in una vecchia torre che fu dei Frangipane, i traditori di Corradino di Svevia.
La scena è divisa in una parte superiore, dove, nella stanza posta in cima alla torre, avviene il dialogo tra l’Uomo Nero ed il Precettore, e in una parte inferiore, dove giace morente il novizio templare Amadeus Von Waldenburg, assistito dalla Gisa e dal piccolo Alì, nonché da Rocco da Sezze. A destra è la cella dei prigionieri templari e a sinistra quella dei pirati saraceni e di altri delinquenti comuni. Degli uni e degli altri giungono i canti.
L’azione procede dunque su due piani: da una parte c’è lo scontro tra un rappresentante della nobiltà (l’Uomo Nero) ed un rappresentante del clero (il Precettore), i quali lottano con tutte le risorse di una dialettica serrata e sottile; dall’altra c’è l’agonia di Amadeus Von Waldenburg, discendente degli Hohenstaufen, ferito a morte per aver tentato da solo di opporsi all’arresto suo e dei suoi confratelli, avvenuto nella Casa segreta dei Templari di San Felice al Circeo. Le due scene si alternano, illuminandosi successivamente, con effetti molto suggestivi.
Se nella parte superiore della scena infatti il dialogo è unicamente giocato sul filo dell’intelligenza, tendendo i due antagonisti a scoprirsi il meno possibile, in modo da poter parare i colpi dell’avversario senza rivelare subito tutte le proprie carte, nella parte inferiore della scena invece vi è movimento e un esternarsi elementare di sentimenti; il che viene sottolineato dalla diversa forma espressiva che, con un ardito plurilinguismo, contrappone la parlata colta, in italiano, latino e francese, dell’Uomo Nero e del Precettore a quella primitiva, che fa uso di un arcaico dialetto dell’Italia medioevale, della Gisa, di Rocco da Sezze e della Tota, una sorella della Gisa.
A poco a poco si scoprono le ragioni profonde del dramma.
L’Uomo Nero, colui che ha tradito i Templari del Circeo, rivelandone la Magione segreta e consentendone così l’arresto, non è un personaggio qualunque. Anche se figlio naturale, è figlio di re: e questo spiega da un lato il suo amore per la politica (egli stesso si definisce «un animale politico» per eccellenza), dall’altro il suo odio, quale bastardo, verso il potere costituito ed il suo lavorio teso a contrassegnarne le mire.
Ciò che più gli preme è conoscere i segreti dell’Ordine Templare, in cambio dei quali offre al Precettore la libertà sua e dei suoi confratelli. Ma è anche una mente così acuta da avere già in parte intuito questi segreti, sicché ciò che egli cerca e più che altro una conferma di quanto ha intravisto; una conferma da ottenersi magari per mezzo di una conversazione brillante e stimolante per il suo spirito.
Egli è un uomo senza scrupoli e senza fede, che soffre di un terribile complesso: quello del reietto (il padre infatti lo ha rifiutato); il che lo porta a negare Dio, quale immagine paterna, e a negare con Dio ogni forma di morale. Non esiterà pertanto ad eliminare, uccidendoli col fuoco, i testimoni scomodi del suo operato.
Personaggio negativo, non è tuttavia senza grandezza: una grandezza che gli deriva dall’intelligenza e da una capacità dialettica fuori del comune. Ciò che ha compreso è che la lotta, propria del suo tempo, non è tanto tra lo Stato e la Chiesa, quanto tra gli interessi di alcune classi (i feudatari, i banchieri, la Corte) a che non venga mutato l’ordine costituito, e quello di altre forze emergenti (in questo caso i Templari) che si fanno avanti per modificare l’equilibrio esistente.
– «Abbassare le cime! Cos’altro avete fatto voi Templari?» – dirà ad un certo punto al Precettore. E soggiungerà: «col vostro sistema agrario... avete messo a terra il regime dei feudi… con quell’oro dato a prestito a interessi stracciati avete dato un colpo… al grande mondo della finanza». Sono queste le ragioni vere della persecuzione dell’Ordine, che non vengono (né possono) essere dichiarate apertamente; onde le false accuse e i processi truccati.
Di fronte all’Uomo Nero (l’uomo senza nome, che nasconde la sua identità dietro una maschera) sta il Precettore. Anch’egli è un uomo scaltro, e lo dimostra svelando soltanto all’ultimo momento al proprio avversario che possiede documenti compromettenti per lui (il che gli dà la possibilità di difendersi e di conservare un margine di sicurezza per sé e per i suoi confratelli); ma è, al suo confronto, di tutt’altra pasta.
Innanzi tutto è un individuo di sani principi, che non si presta al tradimento e che lotta sino all’ultimo per salvare le vittime innocenti, condannate a morte dall’Uomo Nero per ciò che esse sanno. Inoltre egli ha una sua fierezza, anche nel pericolo, e non tollera di venire umiliato (significativo è a tale proposito il suo scatto d’ira allorché chi gli sta di fronte lo accusa di aver mentito). Crede nell’alta missione del suo Ordine e lo difende con energia, pur accettando realisticamente la sconfitta allorché questa appare inevitabile. Controbatte, talora con ironia, le accuse che gli vengono rivolte; ma la sua è un’ironia amara e risentita (di fronte a quella fredda e pungente dell’Uomo Nero), appunto perché egli è consapevole di essere la vittima di un complotto che non ha potuto evitare.
Anch’egli è un «politico» scaltro e un fine schermidore, ma vi è in lui un fondo di buona fede e una sincera certezza della bontà della sua causa che mancano al suo antagonista. Quando dovrà arrendersi lo farà con decoro e ricevendo almeno l’onore delle armi.
Gli altri personaggi, quelli che si muovono nella parte inferiore della scena, sono creature molto diverse sia dall’Uomo Nero che dal Precettore. Esse appartengono al mondo dei semplici, se si accettua il Waldenburg morente, che rappresenta la purezza dell’ideale templare.
Anche tra costoro avviene uno scontro: e precisamente tra la Gisa, ragazza del popolo di facili costumi, ma dotata di una sua pulizia interiore che le fa respingere con veemenza ciò che le pare ignobile, e Rocco da Sezze, scudiero templare; uomo scaltro e rozzo, che ha viaggiato a lungo e che perciò ha visto e conosce molte cose. Egli è certamente un essere privo di scrupoli (pur di salvarsi sarebbe disposto a tradire coloro che serve), ma non è del tutto malvagio se sa impietosirsi di fronte al dolore della Gisa e giunge persino ad inscenare una falsa «investitura» per compiacere il delirio del novizio morente.
La Gisa è la donna perduta, ma non per sua colpa (e non volgare), che avverte tutta l’infamia della sua condizione (ed in ciò si differenzia dalla sorella, la Tota, irridente e superficiale). Ella si è, forse senza neppure rendersene conto, innamorata del giovane Amadeus; e si scopre soltanto allorché questi la scambia, nel suo delirio, per la cugina Margitt e Rocco si avvede del suo turbamento. Resta vicino al templare ferito sino all’ultimo e perisce anch’ella, per non volerlo abbandonare allorché la sorella, nell’imminenza del pericolo, viene a supplicarla di fuggire.
Certamente vi è in lei un animo nobile se anche Rocco da Sezze, cercando di confortarla, le dice «Tieni quarcosa che fa perfino suggezione, specie quando t’enfùlmini»; e lo dice con sincerità, quasi con interno stupore.
Lui invece, lo scudiero, rappresenta colui che, nato da umili origini, non si rassegna al suo destino ed odia coloro che gli stanno sopra e che lo comandano. «Si’ tu ’mpastato de superbia, Rocco da Sezze!», gli dirà a un certo punto la Gisa: e mostrerà con ciò di averne compreso perfettamente l’intima natura.
Nell’ultima scena del dramma, di fronte alla morte, Rocco rivelerà appieno la sua pochezza, mentre alta risalterà, per contrasto, la forza d’animo della sua interlocutrice, la Gisa, la quale accetterà la morte con coraggio, quasi come una liberazione dalla sua infelice condizione esistenziale.
La figura di Rocco da Sezze si accomuna pertanto a quella del Pocapaglia, il comandante del carcere, anch’egli infido e odiatore dei potenti; ed anch’egli, nonostante la sua furbizia e il suo falso servilismo, destinato ad una fine miseranda.
Tra i bagliori delle fiamme che concludono il dramma si ode la voce di Alì, il bambino turco raccolto dai Templari e da loro allevato; una delle figure minori meglio disegnate, che, con la sua innocenza e la sua vivacità, vale a rendere meno cupe le scene del carcere, specie nei momenti di maggiore tensione.
Elio Andriuoli
dal libro “Dieci drammaturghi e quattro poeti drammaturghi”
(Editrice Liguria, Savona, 1995)
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