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La Nazione - La recensione di Paolo Lucchesini
 

Laggiù nei Caraibi ballando col diavolo
L'Istituto del dramma popolare, già faro e cittadella del teatro della spiritualità, ancora una volta non è stato capace di scegliere un testo nuovo che avesse un senso, una tematica, meglio se presente nel contesto civile attuale, una valida drammaturgia tale da far interessare, scuotere, discutere il pubblico. Eppure, l'anno scorso, l'istituzione samminiatese aveva promosso, con il conforto di due critici teatrali, altrettante fresche novità italiane in grado di essere condotte in palcoscenico. Sarebbe stata una svolta coraggiosa e intelligente, forse anche arrischiata.
Ma il timore di fare un passo avanti, di ricominciare da zero per recuperare l'antico, dimenticato prestigio, di soffrire, è stato più forte. Il festival, continuando a ripiegarsi su se stesso, ha puntato su un ben altro prestigio, quello dei nomi (il Nobel 1992 delle letteratura Derek Walcott, un brillante artista composito, Sylvano Bussotti, e un attore amato dal pubblico televisivo, Remo Girone) e non delle idee, del confronto, della profonda, laica spiritualità, della poesia. Siamo alle solite. Basta pensare all'ultimo quindicennio — da Eloisa e Abelardo del 1978 allo spettacolo di mercoledì, Ti-Jean e i suoi fratelli —, secondo noi, si salva totalmente soltanto la Fiorenza- manniana, con la regia dell'impagabile Aldo Trionfo; lo stesso palpitabile Giobbe di papa Wojtyla fu ridotto a un drammone a sensazione.
Si continua sulla strada sbagliata che non si dovrebbe più seguire per il bene dello storico istituto: non si può vantarsi di averlo ringiovanito esibendo in scena deliziose ragazze in costume d'avanspettacolo o facendo scappare di bocca qualche paroletta non proprio pulita. Ci vuole altro.
E veniamo all'opera di Walcott e la realizzazione di Sylvano Bussotti. Si tratta di una favola caraibica per grandi e piccini densa di simboli, tra cristianesimo e animismo, linguaggi, personaggi misterici in parte comprensibile, vedi il mondo della foresta con i suoi simpatici animaletti (una rana, un uccellino, un grillo, una lucciola), simili agli elfi dispettosi screspiriani e agli gnomi della crestomazia europea per ragazzi; meno facili da decodificare alcune figure per noi quasi sconosciute, vedi, per esempio, il Bolom, lo spirito dei bambini non nati che, come spiega l'autore, è «una delle forze dinamiche del dramma» ed altro ancora. Il testo di Walcott funziona cosi così, a sbalzi: il verso bianco non è sempre incisivo, pregnante, presumibilmente a causa di una traduzione che, forse, sarebbe dovuto, in qualche maniera, «europeizzare». In quanto all'allestimento, Bussotti è stato più scenografo e costumista che regista: spiritose, fanciullesche, eleganti le ambientazioni e curiosi, carnevaleschi gli abbigliamenti, per il resto ha cercato di guidare in scena con pazienza il gruppo di giovani attori. Ma lo spettacolo decolla soltanto con le musiche di André Tanker, canzoni e danze, languide e accattivanti al ritmo scatenato dei Caraibi. La trama è lineare, la lotta fra una famiglia — la madre vedova e i tre figli, Gros-Jean, il forte, Mi-Jean il filosofo, Ti-Jean il semplice e il saggio — e il diavolo che, in mentite spoglie, riesce a precipitare all'inferno i primi due giovani. Ma il terzo, rivolgendosi a Dio, vincerà. Tutto qui. Remo Girone è stato un Diavolo divertito, profondamente uomo, sia nel ruolo dell'ambiguo vecchio Papà Bois, sia nel burbero Piantatore e nello stesso Diavolo. Al suo fianco Victoria Zinny, la Madre; fra i tanti ragazzi, per tutti, segnaliamo il Ti-Jean di Gianni De Feo, la Rana di Antonio Fabbri, l'uccello di Antonella Voce. Applausi.
PAOLO LUCCHESINI, La Nazione 17 luglio 1993




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