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Avvenire - La recensione di Luca Doninelli
 

San Miniato, il coraggio del teatro cristiano
L'Istituto del Dramma Popolare compirà presto sessant'anni. E sono sessant'anni che, a san Miniato, si rinnova ad ogni luglio la Festa del Teatro, che dell'Istituto è espressione. In questo fatto c'è qualcosa di eccezionale, di miracoloso. Senza grandi mezzi economici, navigando tra mille difficoltà, l'idea che sorresse un pugno di uomini coraggiosi all'indomani della guerra continua a riproporsi oggi in un mondo che non concepisce più l'esistenza di qualcosa che nacque prima che esistesse la tv in Italia. E poi quelle parole: Dramma Popolare. In queste due parole è racchiuso il contenuto autenticamente cristiano dell'iniziativa, poiché il cristianesimo stesso è dramma, il dramma, ma non un dramma solitario: anche nel cristiano più isolato, esso è dramma popolare, poiché riguarda l'affermarsi della fede in un popolo - non in una filosofia, dunque, né in un'etica.
E non fatico a immaginare le difficoltà che una simile iniziativa ha trovato non solo e non tanto in una cultura (teatrale e non) sempre più orientata verso sponde assai lontane da quella cattolica, ma anche all'interno di una grande parte del mondo cattolico, che per decenni ha sottovalutato il senso della militanza culturale, preferendo ad essa la pura pratica politica. Eppure il teatro è un'arte che più di qualsiasi altra si avvicina, nella sua dinamica, alla dinamica dell'educazione e dell'antropologia cristiane: non fosse altro che per l'unità dell'uomo che il teatro presuppone, per il suo odio per ogni dualismo. A teatro, corpo e anima sono compresenti e inscindibili. Il teatro è dunque, nella sua natura, in controtendenza rispetto alla cultura oggi dominante.
Quest'anno, a dire tutte queste cose meglio di chiunque altro, è stato chiamato Eliot, di cui solo recentemente è stato ripubblicato in ben due edizioni il testo di The Rock, da alcuni tradotto come La Rocca, da altri - come qui a San Miniato - La Roccia. Il regista Pino Manzari per la realizzazione dello spettacolo si è mosso su tre direttrici. La prima sta nella scelta di una scenografia molto eloquente, che parlasse senza mezzi termini di una storia fatta di costruzione e distruzione, dell'odio che il mondo nutre per la Chiesa e del senso che - anche nella catastrofe - balena, sicuro, al disopra della barbarie umana. La seconda direttrice è il lavoro di attori giovani, che hanno alimentato i celebri cori eliotiani con un' espressività ingenua, poco elaborata, senza movimenti, che però raggiunge il suo effetto proprio nella semplicità dell'approccio. La terza direttrice è l'introduzione, per mano del regista, di una riflessione che abbraccia giocoforza, su spinta di Eliot, il senso stesso del fare teatro. Massimo Foschi, che interpreta La Roccia - ossia la Chiesa nella sua ultima invincibilità -, apre, aiutato da Maddalena Crippa, due importanti parentesi nelle quali risuonano ancora limpide e forti le parole di un grande protagonista di S. Miniato, Orazio Costa. L ombra di Costa si stende su questa Roccia a ricordare che l'attore non è un uomo che finge, ma un uomo che si mette in discussione di continuo, affrontando quello che è, per l'uomo di fronte al Destino, il rischio più grande: quello del cambiamento di sé.

Luca Doninelli, Avvenire 23 luglio 2006




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