Thomas Mann alla corte dei Medici
Città difficile, Firenze. Se vi pronunci il nome di Mario Luzi, si arriccia nel silenzio; se poi quello di Thomas Mann, non gli trova posto per quell'anno europeo della cultura che — il tempo è un'opinione — in questa città è destinato durare solo sei mesi. Invece, l'Istituto del Dramma Popolare ha fatto centro allestendo, per il suo quarantesimo anno di attività, l'unico testo teatrale dello scrittore di Lubecca: Fiorenza, che è il nome della donna (Fiore) posseduta da Lorenzo de' Medici e per trasparente simbologia, quello della città governata secondo ideali estetizzanti riassumibili nel culto della bellezza.
Mann scrisse Fiorenza a trent'anni, nel 1905. Già coi Buddenbrook aveva raggiunto la fama. Qui palesò un interesse per le grandi questioni teoriche, « una volontà dialettica e intellettualistica » (Lavinia Mazzucchetti), su cui avrebbe fondato il suo arengo di polemista. L'uscita in teatro, però, non fu compresa, e lo provano sia le scarsissime messinscena (le dita di una mano avanzano), sia i fraintendimenti di cui l'opera è stata oggetto, cogliendone solo l'apparenza di affresco rinascimentale o leggendola in senso anticattolico.
In realtà — e l'autore stesso lo precisò — l'ambiente ricreato era ottimo per collocarvi un drammatico scontro di posizioni morali, per soppesare la forza dell'«o» nella storia diversamente concepita e affrontata, per trasferirvi questioni quali il confronto tra spirito e vita, tra spirito e arte, tra arte e vita e, conseguentemente, tra bellezza e moralità, tra edonismo e religione.
Di fronte, due personaggi: Lorenzo e Savonarola. Si noti che si tratta di due « deboli »: l'uno, per la bruttezza; l'altro per le origini modeste. Tra di loro, il potere. Quello economico, politico e culturale per Lorenzo, quello spirituale, per Girolamo. Almeno così pare a Lorenzo, perché in realtà c'è ila sottile ma profonda differenza nell'affinità tra chi lo esercita e coltiva nell'area della concretezza e chi segue una vocazione, compie una missione, s'impone sulle coscienze. Più ancora che del potere (e, del resto, Lorenzo, morente, sa di perderlo; Lorenzo, ormai, è atteso dal rogo), si tratta della Vita stessa, se intenderla come godimento o come strenuo combattimento contro le tentazioni e i vizi; si tratta se realizzare o meno il tempo di Cristo. Si tratta, per Lorenzo, di assaporarla, la vita; per Gerolamo, di attraversarla e assumerla in tutti i suoi pesi e di coltivare — tra integralismo e democrazia — una utopia che può comportare, in quanto sfida totale, il martirio fisico, dopo quella della incomprensione.
Mann ci mette innanzi i nodi; non li scioglie. Nessuno esce vincitore dal duello, però la sua preferenza par bene che vada a Gerolamo, che in scena (dove compare al quarto e ultimo atto) affascina, scontroso e sdegnoso com'è ispido a sorrisi e ai compromessi, un Lorenzo estenuato dalla sua stessa vita, consapevole della caducità di quanto ha raccolto, disposto ad una fratellanza nei turbamenti dall'agonia spirituale.
Il dramma lungamente e non felicemente indugia, dapprima, tra i giardini di Careggi, popolati di artisti più scapestrati che altro, quell'8 di aprile 1492 che fu l'ultimo per Lorenzo. Il dramma comincia a rassodarsi quando anche le dispute tra il Poliziano e Pico delia Mirandola tacciono per fare posto alla malinconia di Lorenzo e appare quella Fiore (insieme donna e città) che è pure un motivo di raccordo tra il suo signore e il monaco, in quanto costui la conobbe e ne fu per un attimo preso, a Ferrara, d'onde entrambi provengono. E' un elemento psicologico sottile. E' la stessa Fiore che procura l'incontro sconvolgente tra i due e che si fa quasi proiezione del subconscio di Gerolamo, allorché gli profetizza il rogo. Qui cessa ogni divagazione libertina e il testo vibra nella fredda passione dell'autore, che va interrogando anzitutto sé stesso e che, citando indirettamente brani dei discorsi di Savonarola in San Marco, ci permette di cogliere la grandezza della sua statura morale; l'attualità delle sue intuizioni; le folgoranti anticipazioni; la ragionevole radicalità del suo rifiuto tendenzioso e anche ambizioso al modo di vivere all'ombra del potere in nome di una estetica esterna alla vita e separandosi dalla realtà; l'eroicità della sua obbedienza a un dovere fatto « dover essere ».
Questi nodi contemporanei sono bene evidenziati nello spettacolo che Aldo Trionfo (con la collaborazione di Lorenzo Salveti) dopo aver elaborato e ridotto il testo con Marco Bongioanni, ha presentato, partendo da una personale condizione sul valore — tutt'oggi misconosciuto — del testo, e questo convincimento riversando in una rappresentazione concentrata e compatta, alleggerita dei fronzoli rinascimentali così fuorvianti, e indirizzata alla tematica profonda e non certo accademica del testo.
Ecco la bella scena di Giorgio Panni (una pedana dorata su cui troneggia il letto molle di Lorenzo; ai lati, due pulpiti scuri; e i costumi (di Aldo Buti) che si fanno botticelliani in quello di Fiore; ed ecco lui, il Savonarola, subito in scena, perché in realtà sin dalla prima battuta ci si riferisce a lui, e tanto valeva ascoltarlo direttamente nelle sue frementi allocuzioni. Così, tutta la rappresentazione acquista calore e vivezza, anche perché poi, a sostenerla sono: da un lato Virginio Gazzolo, che in questo crea dal nulla il suo personaggio, scegliendo parole tormentose e affilate, patendolo nella sua disarmata ossessione e verità, formulandogli preziose pieghe psicologiche (l'autore è tutto un suggerire); dall'altro, Arnoldo Foà, che a Lorenzo mantiene tutti i guizzi di un intelletto affamato del bello e dona trepidi dubbi e inquietudini sui valori professati, con alta disciplina espressiva. Sabrina Capucci è una bella e gentile Fiore, Edoardo Siravo un ben profilato Pico e il resto degli attori fa da corredo, tanto opportunamente limitato.
Così rivistata, l'opera di Mann, mai data in Italia, si offre nella sua essenza stimolante e come autentico fatto culturale.
Odoardo Bertani Avvenire, Milano, 15 Luglio 1986
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