Elie Wiesel perché
Questo scrittore candidato a due premi Nobel (per la letteratura e la pace), fin dal 1958 « lanciato » da Francois Mauriac che ne intuì la sagacia e l'arte, non avrebbe dovuto sfuggire all'attenzione della cultura nell'ultimo ventennio nemmeno al di qua delle Alpi. Ritardo o « ideologismo »?
I due fenomeni hanno troppo inficiato l'Italia « culturale » più recente per elidersi a vicenda; stanno perciò entrambi tra le cause del nostro « sonno » su Elie Wiesel. Rari moniti attorno al 1982 hanno richiamato l'attenzione sullo scrittore mitteleuropeo. Ma l'eco era già risuonato in precedenza a San Miniato. Fu nel 1980 che l'amico Dilvo Lotti mise tra le mie mani il dramma Zalmèn ou la Folte de Dieu (La Follia di Dio) recato in lingua francese da Parigi dove egli ne aveva visto il grande successo nel '74. La lettura di quel dramma mi entusiasmò. Però restava una certa lunghezza del testo e il problema di una adeguata versione: pensavo a un affettuoso poeta che, al di là della eleganza stilistica, proponesse in italiano la tragica intensità di una confessione personale, l'appassionato grido di denuncia sociale, e anche la inquietante « rabbia » di una passione religiosa... al punto di coinvolgere lettori, attori e spettatori...
Quando lessi Il Processo di Shamgorod, fresco di stampa per merito di Daniel Vogelmann e dell'editrice « La Giuntina » di Firenze, mi svanì ogni dubbio: eccolo, l'affettuoso poeta partecipe della tragedia esistenziale di Elie Wiesel, che in ottimo italiano, con robusta autenticità teatrale, ci consegna — nell'ambivalenza così abile della farsa e della tragedia insieme unificate ¦— la poesia originale dell'Autore. Alla Giuntina, dunque, il merito delle prime pubblicazioni wieseliane; all'IDP di San Miniato il merito della prima rappresentazione italiana di questo autore che ci giunge con almeno tre lustri di ritardo. Non se l'abbiano a male, per una volta, i candidati nostrani che restano — nonostante l'eccezione — alla base delle attenzioni sanminiatesi: solo che essi vincano la battaglia della qualità e delle norme selettive...
Il Processo di Shamgorod si propone non solo nell'ambito di chi crede al Dio biblico ebraico e cristiano, ma nel più ampio arco dell'uomo di oggi e dei suoi problemi. Shamgorod è Varsavia, è Auschwitz e — data l'universalità artistica di Wiesel — ogni altro « odio »: Indocina, Afghanistan, Centro o Sud America, dovunque qualcuno (anche cristiano dimentico dell'Amore) infligge a qualsiasi uomo dolore e morte. Quest'uomo, individuo o popolo, ha allora il diritto di intentare il Processo che già risuonò sul Calvario: « Eloì, Eloì, lama sabachthanì »... Dio, Dio, perché mi hai abbandonato? Che Wiesel, forse meno di Giobbe (S. Miniato dovrebbe ricordare il J.B. di Mare Leish), non trovi sbocchi e si crucci nel mistero del male senza « assolvere » l'Imputato, ciò fa parte dell'umano. D'altronde non è in teatro che si cercano risposte definitive.
Basta al teatro provocare le inquietudini dello spirito. Per chi voglia, sarà poi lo Spirito a rispondere.
Marco Bongioanni
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