Per chiarire
Grcoscrivere il senso di certi nostri atti o operazioni è talvolta fuori della nostra portata — il che non significa affatto che siamo esentati dalla loro responsabilità. Ancora più difficile è darne una definizione, s'intende. Il meglio allora, se proprio dobbiamo giustificarli, è raccontare come li abbiamo visti o sentiti prepararsi e accadere. E' ciò che ho tentato di fare a proposito di Ipazia e del Messaggero quando li ho raccolti nel volumetto rizzoliano dove il tutto può essere letto, appunto, come Libro di Ipazia. Quanto dico presuppone un dato molto semplice che ai cultori del teatro e del corrente discorso sopra il teatro sembrerà più strano che non agli scrittori di teatro (alla cui famiglia per altro non ho titoli, lo so bene, per essere ascritto): il dato è questo, che non avevo alcuna idea e meno ancora alcuna intenzione preliminare, non volevo sostenere nessuna tesi, né mi era chiaro in anticipo nessun significato tra quanti poteva averne ciò che ero vivamente trascinato a fare, e cioè risvegliare dal sonno e dall'oblio esistenze remote ripercorrendo tracce molto deboli, rivivendo patemi solo presumibili ma non per questo meno forti.
Tuttavia non può trattarsi di un puro incidente se mi sono lasciato affascinare da quelle figure uscite quasi esclusivamente dai loro nomi registrati dalla storia — come Ipazia e Sinesio — o inventati in sintonia onomastica con il luogo e con il tempo, e cioè Alessandria e il quarto secolo della nostra era. Quel tempo, quel luogo, quelle persone o quei nomi mi si presentavano come un crogiolo incandescente della passione, della agonia che sono inseparabili dai grandi e profondi rivolgimenti della storia quando mutano vistosamente le epoche e gli uomini si dibattono dentro quel mutamento.
A parte l'imponderabile e il poco o nulla dicibile di certa fascinazione, ciò che mi lega a questa vicenda è prima di tutto quel senso, appunto, di avvertito e lacerante trapasso, quel procedere della storia — percettibile quasi dal sangue da una forma verso un'altra ancora oscura, nascente ma non trasparente, di vita e di civiltà. E l'angoscia con la quale allora più che mai l'uomo s'interroga sul proprio destino e chiede ragione della propria sorte nella stretta di molti dubbi e di poche ingannevoli sicurezze.
C'è anche qui chi si sforza (e s'illude) di dominare con la chiarezza logica della scienza l'oscurità della storia e dei suoi processi: mitica aspirazione ricorrente per la quale l'umanità s'è insanguinata. C'è, a riscontro, la umile religione del mutamento unita alla coscienza amticipatrice di tempi necessariamente nuovi, illusoriamente più innocenti...
C'è infine l'inestimabile prodigio di una verità prorompente che si esprime anche con gli argomenti e con le parole dei suoi avversari, quasi un misterioso e vertiginoso disegno volesse che la testimonianza sia data e contrario, dall'altra parte. Così mi pare si debba vedere il martirio laico di Ipazia.
Tutti questi motivi, diciamo pure di attualità, c'erano o ce li ho messi? Me li ha suggeriti quell'incerto brano di storia o si riverberano su di esso dal nostro presente? Non si può dire chi da e chi riceve quando c'è un rapporto di reciprocità. E' proprio questo che si è prodotto in me che scrivevo, ed è questo che vorrei aver fatto nascere in voi che assistete e ascoltate: un senso di reciprocità con quelle creature immerse nella fatica e nel dolore del mondo.
Mario Luzi L'Osservatore Romano, Roma, 30-31 Luglio 1979
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