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Il Secolo d'Italia - La recensione di Mario Bernardi Guardi
 

Le luci della ribalta illuminano il Sacro
Il Teatro dello Spirito di San Miniato giunge con Magic di Gilbert K. Chesterton al suo quarantanovesimo appuntamento. Tutto ebbe inizio nel 1947 con La maschera e la grazia di Henry Gheon in un clima difficile per chiunque si proponesse di far cultura senza bruciare incensi sugli altari dei nuovi conformismi; e, oltre a questo, chiedesse intelligenza agli intellettuali. Una domanda che parrebbe scontata, indicativa di un'esigenza reale e non di un esoso arbitrio: ma che non lo è laddove l'arte si piega a richieste mercantili, si sottopone a giudizi inquisitori che ne valutino i diritti politici, accetta che la censura tiri un frego rosso sui percorsi di chi non si allinea, sugli itinerari, giudicati subito con sospetto, di chi non rispetta le previste direzioni di marcia.
L'azzardo culturale e civile dell'Istituto del Dramma Popolare — nato dalla volontà di un gruppo di laici e di religiosi che avvertivano l'esigenza di una testimonianza cristiana rigorosa e contemporaneamente aperta ad ogni inquietudine esistenziale a misura (o a dismisura) d'uomo — stava nel farsi carico, ogni anno, di un appuntamento teatrale diverso per quel che riguardava la scelta dell'autore e del testo da portare sul palcoscenico (e il palcoscenico è sempre stato quello della Piazza del Duomo con tutte le sue cifre corali e sacrali); ma, se vogliamo, rituale e canonico nel suo riferirsi, appunto, all'uomo, al suo credere ora convinto ora confuso, ai dubbi laceranti che finiscono col nutrire speranze, ai quotidiani interrogativi sulla nascita e sulla morte. Dio che ci agita gli animi ma si nasconde agli occhi e sull'amore e il disamore e l'odio e la violenza. Portare in scena il Sacro, portandovi, insieme, l'umanità, anche la più orfana o la più ostile, e raccontandone le storie che poeti del teatro hanno inventato e hanno tradotto in parole e gesti per un pubblico: questa era la scommessa. Lo scandalo di Dio in un oratorio non convenzionale, non edificante, non pacificante; la sofferenza che dolorosamente ti apre la coscienza comunque in cammino, la soffochino emozioni e pulsioni, la allarghino attese e promesse. In quarantanove anni sono sfati rappresentati tra l'altro Eliot e Bernanos, Greene e Claudel, Silone e Fabbri, Strindberg e Malaparte, Pomilio e Luzi, Mann e Wiesel, e addirittura, dieci anni fa, il Giobbe di Karol Wojtyla. Diversi gli approcci ai testi a seconda della sensibilità del regista; di varia fattura le messe inscena, ora tradizionali, ora audacemente innovative nel linguaggio; alterni gli esiti; sia in termini di risposta da parte del pubblico, sia per quanto riguarda gli interventi critici, spesso separati da fiere dissonanze nel giudizio di merito; sempre apprezzabile, comunque, l'impegno iniziale, la vocazione testimoniale intesa a rappresentare il dibattere, amorosamente e polemicamente, su quello Spirito che soffia dove è come vuole.
Quest'anno dunque Magic di Saverio Simonelli e per la regia di Mario Scaccia. Che dire? Chesterton era un cattolico sano e pugnace, tutto il contrario dunque, di un bigotto avvizzito dentro una fede piccina fatta di rancori e di esclusioni; tutto il contrario, anche, di un cristiano a mezzo servizio, di un tiepido, pavido, accomodante censore di certezze troppo robuste, di appetiti troppo ardenti, di cerche troppo appassionate lungo gli impervi camminamenti di Dio e delle anime che lo contengono e lo esaltano, anche quando lo sputano fuori rabbiosamente. Chesterton sa che il Sacro ti invade in mille modi: anche ridendoti in faccia, anche esasperandoti. Chesterton sa che nel disordine, nel grande, manzoniano guazzabuglio del cuore umano, si nasconde la richiesta di un Ordine che è l'esatto contrario del farisaico perbenismo costruito sugli interrogativi rimossi e sulla melensa ortodossia di troppi punti esclamativi.
L'Ordine è alta armonia perché è obbiettivo, spesso sottoposto a duri contrasti, di un percorso alto: e chi ha scritto opere limpide e di memorabile intelligenza cristiana su Francesco d'Assisi, e su Tommaso d'Aquino, lo sapeva bene.
Questa storia - dove si trovano immersi improvvisamente nel sovrannaturale un medico nutrito di cascami positivistici a cui poi non crede neppure troppo, un duca stravagante che finanzia blocchi d'ordine e movimenti sovversivi, un illusionista che sa che non tutto è illusione e che Dio e il Diavolo possono spesso giocare con lui, una fanciulla che insegue per i boschi elfi e fate così come si insegue la purezza originaria in un mondo stuprato dall'incredulità, un prete che confonde il suo magistero con quello di un filantropo lo evidenzia con nitore di idee e di accenti (talora sarcastici contro i progressisti): non chiudete Dio in un misero schema consolatorio, non cacciatelo fuori armati della vostra scienza senza coscienza, perché Lui verrà a seminare turbamenti e a chiedere ragioni.
Scaccia è, come sempre, all'altezza della situazione come attore, anche se, come regista, non sempre riesce ad amministrare nel modo giusto i caratteri dei personaggi che risultano eccessivamente tipizzati e caricati. E si tratta, comunque, di attori di buon livello: Corrado Olmi, Walter Da Pozzo, Chira Sasso, Gabriele Tuccimei, Raffaele Buranelli.
MARIO BERNARDI GUARDI, Secolo d'Italia 9 agosto 1995




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