La recensione
Negli incubi di Goya la coscienza della Spagna di oggi
Ecco, nella piazza del duomo di San Miniato, il secondo incontro con il drammaturgo spagnolo Antonio Buero Vallejo, dopo quello di tre anni fa quando, per la tradizionale Festa del Teatro, venne messo in scena, di lui, Il concerto di Sant'Ovidio. Questa volta, sempre con la regia di Paolo Giuranna, e con un gruppo di attori fra i quali figurano, nei ruoli principali, Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice, l'Istituto del Dramma Popolare ha presentato l'ultimo testo dello scrittore spagnolo, Il sonno della ragione, pure nell'attenta traduzione di Maria Luisa Aguirre d'Amico.
Debbo dire subito che questo dramma mi ha interessato e stimolato. Trovo che la sua idea centrale, che consiste nella identificazione d'un «negativo» della Spagna di oggi con la grande pittura tragica di Francisco Goya — e, indirettamente, con la menomazione che lo colpì negli ultimi trent'anni della sua vita, la sordità — è un'idea robusta e valida. Vallejo è uno scrittore che ama i simboli vistosi, magari un po' elementari, ma di immediata comprensione. Anzi, il pubblico può addirittura calarsi in essi, trovarsi in qualche modo al centro dell'azione, messo com'è, spesso, nella medesima condizione fisica dei personaggi o, almeno, come in questo caso, del protagonista.
Già avveniva in un altro dramma di Vallejo Nell'ardente oscurila, ambientato in un ospizio per ciechi — ciechi emblematici naturalmente, ciechi presi a paradigma dalla condizione umana dei più —, che gli spettatori d'un tratto si trovassero immersi nell'oscurità più completa, spente nel teatro anche le luci di servizio. Qui, tutte le volte che è in scena il Grande Sordo, noi vediamo gli altri personaggi gesticolare, muovere violentemente le labbra, senza che alcun suono ne esca. È la condizione di isolamento di Goya, nella Spagna post-napoleonica, sotto il restaurato regime assolutistico di Ferdinando VII, che l'autore ci costringe ad assumere. In questa solitudine fasciata di silenzio, in questo ipnotico sonno della ragione, la grande pittura allucinata e grottesca della vecchiaia di Goya — di cui appaiono fantomatiche le riproduzioni sui pannelli che formano la scena di Gianfranco Padovani — popola di mostri e d'incubi il dramma. Sono i mostri e gli incubi di una cattiva coscienza collettiva. Alcune battute del protagonista risultano fin troppo esplicite, a questo proposito: «Ci resta solo da imputridire, ormai, mentre si dipingono putredini»; oppure: «Non sono più, ormai, che un vecchio sull'orlo della tomba... un paese sull'orlo della tomba, la cui ragione dorme...».
Perché, insomma, questo vecchio Goya di Vallejo, prigioniero dei suoi incubi, murato nel pozzo della sua solitudine, è la coscienza stessa della Spagna, che rifiuta nella sfera intellettuale e morale la dittatura ma non ha la forza e il coraggio per ribellarsene; così come è la Spagna la triste e ardente e un po' ambigua amante di Goya, Leocadia Zorilla De Weiss, le cui paure sono soprattutto pratiche, materiali, paura della persecuzione poliziesca, terrore del rinascente spettro dell'Inquisizione; ma che intanto alla violenza soccombe con una specie di masochistico piacere, col gusto dell'autodistruzione, con il compiacimento della propria negatività.
Queste sono le idee e le immagini che, impostate su una struttura vagamente barocca, più prendono nel dramma. Quanto al loro realizzarsi teatralmente, anzi, all'affabulazione cui danno origine, qualche riserva si deve fare; e riguarda l'immobilità del dramma stesso, le cui posizioni sono fissate al principio e che non variano molto col suo progredire di scena in scena, la dialettica del testo si limita alla contrapposizione del tiranno mellifluo — Ferdinando VII, intendo ai suoi ricami preziosi, simbolo elementare delle trame che va conducendo — e del perseguitato impotente, il grande pittore chiuso nella sua Quinta del Sordo (la Vila del sordo, nei dintorni di Madrid), tutta viva — altro che putredine — della sua tragica pittura. Come il ribelle chinerà il capo alla fine e chiederà che gli sia concesso l'esilio — così avvenne in realtà, Goya morì infatti in Francia, a Bordeaux — è qui rappresentato con un certo gusto della truculenza e un compiacimento figurativo che si rifa sì alla pittura di Goya, ma che, forse appunto per questo, sembra trasformarsi, sul palcoscenico, in una sequenza di Bunuel. Per la verità, non è in questo pur abile manierismo il significato attivo del dramma; ma, come s'è detto, nella connessione degli incubi visivo-sonori di Goya a una situazione storica per cui l'angoscia individuale di un artista e una sua stessa menomazione fisica diventano l'emblema di una condizione collettiva, del dolore impotente di un popolo.
Mi pare che a questi motivi più validi si sia attenuta la regìa di Paolo Giuranna, che ha cercato di sottolineare e di enucleare tutta la parte onirica del dramma e di coinvolgervi, per quanto fosse possibile, gli spettatori. È notevole l'interpretazione di Aroldo Tieri, per la misura da cui l'attore sa cavare una sorta di dolente, controllatissimo effettismo. Giuliana Lojodice armonizza assai bene la prevalente azione mimica del suo personaggio con la drammaticità, poi, della parola. Fra gli altri ricorderemo il ben puntualizzato Giampiero Becherelli, Mino Belici e Carla Greco.
ROBERTO DE MONTTCELLI, Il Giorno, Milano, 26 Agosto 1970
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