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La recensione di Mario Raimondo
 

Silone e la sua lezione teatrale
Parlando del suo novo dramma, L'avventura di un povero cristiano, e soprattutto rispondendo ad alcune obiezioni sulla sua rappresentabilità — per la prevedibile eccessiva durata dello spettacolo da una parte, ma anche per la puntigliosa attenzione ai particolari sia nei discorsi degli umili che nei dibattiti dei religiosi —, Ignazio Silone ricordò, una volta, e non ha mai cessato, poi, di ripeterlo, di essere l'autore di un libro e di aspettarsi, in tutta tranquillità e con una grossa riserva di tolleranza, l'incontro con l'autore di uno  spettacolo.
Ora questo incontro è avvenuto. Valerio Zurlini ha «adattato» e messo in scena il dramma di Silone, in occasione della «ventitreesima festa del teatro» a San Miniato.
Bene, tirate le somme, non mi pare che Silone abbia dovuto far ricorso alla sua tolleranza: l'autore del libro resta l'autore del testo rappresentato e lo spettacolo restituisce, intera, la tensione morale e la capacità dimostrativa della parabola siloniana. Ciò vuoi dire che Zurlini ha impegnato una singolare sensibilità poetica e un'attiva intelligenza nel misurarsi con un testo obiettivamente «difficile» ma insieme straordinariamente affascinante ed è riuscito a chiuderlo in un tempo drammaturgicamente coerente, senza costringerlo in quelle che, insopportabilmente, vengono definite le «necessità della scena». Così che ci viene evitato lo schema che più era da temersi, e cioè l'analisi del dramma di Silone da una parte e quella dello spettacolo dall'altra: che sarebbe stata — quale potesse essere la dose di tolleranza, nostra questa volta — una esplicita dichiarazione di fallimento dell'operazione  drammaturgica.
I due momenti sui quali si è operata questa saldatura sono quello della sensazione di contemporaneità del tema e quello della chiarezza del racconto e della dimostrazione.
Nelle bellissime pagine saggistiche che Silone fa precedere al dramma nella edizione stampata (ho sentito dire: peccato che non possano far parte della rappresentazione teatrale; ma come non accorgersi che tutto lo spettacolo è filtrato proprio attraverso di esse, come non sentire quanto sono state presenti a Zurlini non soltanto nel primo capitolo della sua regìa, che è l' «adattamento», ma persino nel suggerimento figurativo che governa lo spettacolo?); in quelle pagine, dicevo, anzi proprio nelle prime righe, Silone sottolinea due affermazioni che vale la pena di ricordare: «Ogni mio interesse, come scrittore, è rivolto al presente», egli dice, e ancora: «Certe realtà del presente hanno radici lontane». Qui è la sensazione di contemporaneità di cui parlavo sopra.
L'avventura d'un povero cristano narra il viaggio dell'eremita fra Pietro da Morrone attraverso il pontificato fino al rifiuto e alla morte. Una storia esemplare e un personaggio esemplare che appartengono in modo pieno alla storia stessa di Silone scrittore; in più, un universo di riferimenti alla condizione del cristiano contemporaneo (padre Ernesto Balducci, in una nota inserita nel «programma» dello spettacolo, individua bene questi riferimenti nelP «incendio» acceso da San Francesco e tenuto disperatamente attivo dai francescani irregolari, fino alla breve speranza del papato di Celestino e nel rinnovarsi dell' «incendio» con Giovanni XXIII e con ciò che è accaduto durante e dopo il Concilio). Ora, chi ha presente l' «unico libro» di Ignazio Silone, sa che questo cristianesimo della ribellione, insieme con la diffidenza verso le chiese, lo sdegno verso gli apparati prevaricatori inscindibili dalle istituzioni, il disprezzo verso il conformismo sono altrettanti elementi del solo discorso che gli interessa di fare e che è guidato, semplicemente, dalla passione per l'uomo e per la verità. La vicenda di Pietro da Morrone contiene, con altrettanta semplicità, tutti questi elementi. E i suoi momenti più drammatici combaciano, in modo singolarissimo, con i tempi più tesi del discorso siloniano. L'elezione di Pietro da Morrone al papato, che avviene al termine di un Conclave travagliatissimo e che, pur se appare agli umili come il risultato di un intervento miracoloso, altro non è se non la conseguenza di una tregua nella lotta per il potere tra le fazioni degli Orsini e dei Colonna, che governano il Collegio dei cardinali; la sua attività di pontefice che lo vede lacerato dalla contraddizione che l'esercizio del potere impone tra la Chiesa e il Vangelo, e incapace di intendere la lotta che attorno a lui si svolge, protagonisti da una parte i cardinali conservatori simboleggiati dal Caetani — che sarà poi Bonifacio Vili — e dall'altra Carlo d'Angiò; la sua rinuncia, che è un preciso atto di coscienza contro la tentazione del potere e di rivendicazione della ribellione cristiana; la sua vita dopo la rinuncia, ancora agitata dalla speranza che la prigionia e la morte presto spegneranno in lui e nei suoi seguaci.
È vero, questa evidenza esemplare della vicenda è di per sé violentemente espressiva, anche per la scelta didascalica operata da Silone nella struttura del dramma e per il linguaggio usato dallo scrittore, che non dimentica mai il territorio geografico-morale delle sue storie che è un Abruzzo
reale e astratto insieme, capace di condizionare alla semplicità delle parole dette e da dire. E tuttavia se Zurlini si fosse fidato di questa evidenza, il rapporto dello spettacolo con la contemporaneità del tema sarebbe apparso come rassegnato, passivo. Ed è qui, invece, come dicevo sopra, che si realizza una delle saldature fondamentali tra l'opera scritta e l'opera rappresentata. Gli elementi sui quali Zurlini ha lavorato sono dapprima lo spazio scenico, segnato da una figuratività essenziale che esplode in tre sconvolgenti fondali di Burri — uno per ogni tempo del dramma: grigio e percorso da un umile segno di croce il primo, rosso e come corroso e slabbrato il secondo, bianco e lacerato da una nera idea di violenza l'ultimo; — poi la recitazione, nella quale l'equilibrio tra la rappresentatività naturalistica e la dimostratività didascalica si rivela un atto fondamentale di intelligenza creativa; infine la scelta del protagonista e la sua collocazione in una tensione morale che sfuggendo ad ogni connotato del tempo storico, insieme li raccoglie tutti e li dilata dando alla contemporaneità del personaggio un primo fondamentale valore poetico.
Converrà fermarsi un momento su questa scelta, che è quella di un attore giovane e dotato di una figuratività tanto allarmante, scattante e risentita come è Giancarlo Giannini, per un personggio che, storicamente,, vive il centro della propria vicenda intorno agli ottant'anni. Una scelta rischiosa, alla quale si poteva guardare con molta perplessità: eppure è proprio da essa che lo spettacolo trae il momento più attivo nel rapporto con la sostanza morale del testo, con la sua misura poetica. Un gran merito va naturalmente proprio a Giannini: il suo Celestino V è una figura nutrita di fede, di gioia, di spirito giovane e incorrotto; i suoi smarrimenti e i suoi furori appartengono alle vibrazioni di un'anima pura; la sua fermezza nel rifiuto è la certezza, giovane anch'essa, della ragione della scomodità del cristianesimo. Di Pietro da Morrone Giannini è riuscito a dare non la credibilità storica — e non l'avrebbe potuto, ma anche non sarebbe servito — ma la credibilità spirituale, e ne ha fatto il fratello, il compagno degli umili frati che avendo sperato nella luce di Francesco tornavano a sperare in lui. L'«incendio acceso» — torno all'espressione di padre Balducci —: ecco, il Celestino di Giannini era proprio un tizzone in questo incendio.
L'altro elemento fondamentale della saldatura operata da Valerio Zurlini tra lo spettacolo e il dramma di Silone è la chiarezza della rappresentazione, la sua semplice dimostratività. Tra le cose che Silone ci ha insegnato nella sua testimonianza di scrittore e non solo di scrittore, questa del valore della chiarezza e della sua parentela con la verità è certamente tra le più significative e tra quelle che egli conferma quotidianamente;   non fa meraviglia  dunque  che anche in questo caso essa governi l'idea del dramma e la sua realizzazione scenica. Zurlini ne ha avvertito il valore e se ne è fatto guidare sia nella riduzione che nella interpretazione, aggiustando su di essa la cadenza didascalica del dramma e lasciando addirittura montare qua e là il suggerimento di un andamento di spettacolo popolare (del resto l'opera si apre e si conclude nell'angoscia e nella speranza degli umili e si svolge per una serie di quadri nei quali la contrapposizione tra potere e verità ha il rilievo di un fondamentale nodo drammaturgico: struttura volutamente elementare che richiama alla tradizione del teatro popolare). In questa scelta di chiarezza sono stati sistemati alcuni momenti di straordinaria tensione, come i due colloqui tra Celestino e il cardinale Caetani, e tra Celestino e il Caetani divenuto Bonifacio Vili (al cardinale, Gianni Santuccio ha prestato una singolare autorità e una sorta di allucinata, malata volontà di potere) o come l'arrivo dei francescani irregolari, pagina di straordinria emozione scenica.
Dunque uno spettacolo rigoroso, coerente e ricco di sangue, di vita, di fervore, segnato da una disponibilità al discorso morale con una inquietudine diciamo rara, nei nostri teatranti e sui nostri palcoscenici. E poi la felicità che attraverso questo spettacolo venga confermata in modo tanto pieno la presenza di un «teatro» di Ignazio Silone, dopo la scoperta di Ed egli si nascose (anche lì un «eremita» in rapporto con i diversi aspetti del potere, anche lì l'Abruzzo chiuso e ospitale, nella sua memoria cristiana).
Non c'è dubbio che un teatro come questo si presenti scomodo alla realtà della nostra scena: in esso è tutto ciò che normalmente vi si considera con diffidenza e distrazione. Vicende non «facili», tematiche autenticamente provocatorie, una struttura severa; nel complesso un impegno da chiedere al teatrante e al pubblico insieme, senza indulgenza. Ma si tratta di storie nostre, con le radici affondate nella memoria cristiana della nostra gente e nell'ansia di rivoluzione che a questa eredità cristiana si è sempre congiunta nel sentimento popolare. Dunque un modo di rappresentarci.
E al nostro teatro — tra mille stimoli culturali cui si abbandona e la confusa ricerca cui si rivolge — continua a mancare appunto, troppo spesso, la capacità di rappresentarci, dunque di legarsi, non occasionalmente, alla società e alla storia. Il lavoro di Ignazio Silone indica la strada opposta: fermo alla volontà di spiegare l'uomo cercandone l'intima misura, egli racconta il nostro presente anche scavandone le radici lontane.
Mario Raimondo, Dramma, Torino, Settembre 1969




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