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La recensione di Raul Radice
 

La recensione

Novità italiana a San Miniato

Davanti alla bella cattedrale sul cui sagrato si sono di anno in anno succeduti spettacoli tra i più significanti del nostro tempo, San Miniato ha festeggiato con un'opera di nuovo allestimento, L'erba della stella dell'alba di Amleto Micozzi e Marcelle Aste, il venticinquesimo anno di vita dell'Istituto del dramma popolare.
Ricorrenza festosa, che fra l'altro ha consentito ai dirigenti dell'Istituto, il quale fa calcolo soprattutto sulla adesione e sulla collaborazione dei samminiatesi, di dare alle stampe una ricca monografia che dell'attività svolta dal lontano 1947 ad oggi è più valida testimonianza. Da Henri Gheon, a Claudel e a Bernanos, da Neveux a Cesbron a Copeau e a Maulnier, da Thomas Eliot a Greene, a Fry e a Mac Leish, da Milosz a Shamir e a Vallejo, da Betti e Cicognani, a Fabbri, a Turoldo e a Silone, l'Istituto del dramma popolare ha dato vita a una rassegna drammaturgica i cui capitoli più prestigiosi, lungi dall'esaurirsi a San Miniato, da San Miniato hanno iniziato un cammino che non di rado li ha messi a confronto con numerosissime platee. E va detto che l'Istituto, pur avendo di mira soprattutto il contenuto d'ogni singola opera, non ha mai limitato il proprio interesse ai soli testi. L'elenco particolareggiato dei registi degli scenografi e degli attori via via convocati dimostra che a San Miniato, nell'ultimo quarto di secolo, è passato (e talvolta di lì è partito) il meglio del nostro teatro.
Non ultimo merito dell'Istituto del dramma popolare è avere accolto, non senza spregiudicatezza, drammi la cui validità rappresentativa veniva sperimentata per la prima volta. Simili atteggiamenti esigono un certo coraggio, tanto più quando si consideri che la Festa del teatro di San Miniato prevede l'allestimento di un solo spettacolo annuale. In quello spirito deve comunque essere considerata l'ultima scelta, L'erba della stella dell'alba, dramma, o più esattamente «rappresentazione» proposta dal Teatro Stabile di Genova del quale Micozzi ed Aste sono da tempo collaboratori.
Rappresentazione, si insiste sul termine, della quale il programma (la cui lettura è questa volta indispensabile a far capire quel che accade in palcoscenico) da inizialmente una idea abbastanza chiara. «L'erba della stella dell'alba», è detto in proposito: «nasce come creazione fantastica su un humus storico autentico. Sebbene per noi occidentali la storia sia nostra proprietà pressoché esclusiva, sicché è storia (almeno con la esse maiuscola) solo quella della nostra civiltà, tuttavia non si può ignorare che almeno un capitolo di questa storia, marginale quanto si vuole nella attuale gerarchla dei valori, parla dello scontro dei colonizzatori bianchi dell'America del Nord con il popolo dei pellerossa, in particolare con i Sioux, scontro avvenuto durante il periodo pionieristico della frontiera del West, che portò gli Stati Uniti d'America all'espansione verso la costa del Pacifico e che occupò, con periodi di maggiore o minor virulenza, quasi tutta la seconda metà del secolo decimonono».
Il riferimento è preciso. Meno facile sarebbe tuttavia, soprattutto nella prima metà dello spettacolo (nella seconda la datazione si deduce dalla presenza di Buffalo Bill e della regina Vittoria), individuare il tempo e il luogo in cui agisce la tribù degli Oglala alla quale i due autori attribuiscono una esemplarità che la elegge a rappresentante di tutto un popolo. E nemmeno è agevole rendersi conto dei rapporti gerarchici, di parentela e affettivi che legano l'uno agli altri i componenti della tribù. I nomi, Ala d'Aquila, Luna Verde, Daino Rosso, Orso Grande, Occhi di Cerva e Tuono di Fuoco, in casi come questo dicono poco. Uno solo colpisce con una certa evidenza una parte del pubblico, Alce Nero: che sta ovviamente a indicare una delle fonti cui Micozzi e Aste devono essersi ispirati.
Tuttavia della migrazione degli Oglala, della loro volontà di sopravvivere (la quale, meglio che da propositi concreti, sembra derivare dai sogni cui di volta in volta soggiacciono i componenti della tribù), del loro attaccamento a una tradizione che essi medesimi sembrano qua e là contraddire, e del rifiuto a integrarsi in un sistema del quale poi volontariamente assumeranno alcuni modi illudendosi di poterlo affrontare dall'interno, di tutto questo L'erba della stella dell'alba fornisce soltanto pochi brandelli isolati, per di più espressi in una forma manieristica (che partecipa nello stesso tempo del rito e del manifesto) la quale forzatamente si esaurisce in una declamazione tutta prevedibile.
Storia patetica, che in definitiva riesce a rendere contemplativi anche i suoi momenti più drammatici. Perché è vero che in essa si riflette la morte di un popolo (di ciò consapevole al punto di «attendere» che qualcosa o qualcuno arrivi a salvarlo «da fuori» ), ma è altrettanto vero che quella fine non è imputabile al proposito distruttore di un altro popolo. Essa appare piuttosto come la conseguenza inevitabile del dilagare di una civiltà diversa, essa pure obbedisce a una sua legge storica.
Si tratta, ciò nonostante, di considerazioni indirette che la staticità dello spettacolo, allestito con la regia dello stesso Marcelle Aste, il quale ha trovato validi collaboratori nello scenografo Gianfranco Padovani, in Piero Piccioni autore delle musiche di scena, e nella coreografa Marisa Flach, suggerisce soltanto in parte. Dicendo teatro statico non si allude naturalmente ai movimenti degli attori (ai quali, anzi, sono continuamente impegnati in successioni coreograficamente animate), quanto, e più, alla staticità del testo. Della quale ultima, bisogna dire che la sovrabbondanza e la violenza dei movimenti, pur suggestivi, anzi che a indurre a dimenticarla, la sottolineano.
L'erba della stella dell'alba, nei limiti del manierismo cui si è accennato, è recitata con molto impegno e con bravura da una ventina di attori fra i quali si segnalano Giulio Brogi, Guido Lazzarini, Ugo Maria Morosi, Attilio Cucari, Grazia Maria Spina, Esmeralda Ruspoli, Anna Menichetti ed Edda Valente, tutti insistentemente applauditi.

RAUL RADICE, Corriere della Sera, Milano, 28 Luglio 1971




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