Il crepuscolo di Strindberg
«Sacro» è una parola che va scritta con molte cautele. Trascina con sé troppi altri significati per dire semplicemente quello che dice. E poiché, a usarla, si finisce spesso dalle parti delle ideologie, delle fedi o dei pregiudizi, ancor più spesso si è tentati di lasciarla perdere. Anche con «spirito» e con «spirituale» pare sia bene comportarsi allo stesso modo.
Proprio allo spirito, però, proprio al tema del sacro si vota, oramai da quarantaquattro anni, l'Istituto del dramma popolare, che nella Piazza del Duomo di San Miniato, promuove ogni estate la «Festa del teatro». Quarantaquattro allestimenti che messi in fila, dal luglio del 1947 in poi, descrivono il profilo della politica teatrale dei cattolici in Italia. Tutti testi da noi inediti, testi che per statuto devono rispondere ai requisiti «delle novità, dell'attualità, della validità culturale e religiosa». Dall'Eliot dei primissimi anni, a Copeau, a Betti, a Fabbri, a Turoldo, a Claudel, fino a Bernanos l'anno scorso e a Strindberg, proposto quest'anno con La lunga strada maestra. Dunque, non solo testi cattolici e confessionali: «Non ci interessava un teatro puramente devozionale ed edificante, volevamo un teatro impegnato sui problemi e sulle inquietudini spirituali del nostro tempo». Sono parole scritte vent'anni fa da Giancarlo Ruggini, un sacerdote molto diverso dall'immagine tipica dei sacerdoti dei primi anni del dopoguerra, un «prete singolare» capace di dare impulso, assieme a Silvio D'Amico, a questa iniziativa che da allora, e non senza incertezze, non senza turbamenti e rapporti difficili con i quadri del cattolicesimo italiano, è giunta fino alla «Festa» di questo 1990, epoca assai poco propizia per un teatro sul quale gravino responsabilità «spirituali».
Eppure — come si diceva — è con cautela, non con sufficienza, né con imbarazzo che conviene trattarne. Quella cautela che, a esempio, consigliava a uno studioso così poco sospetto di spiritualismo come Gregory Bateson, di scegliere proprio la categoria del sacro per indicarvi l'unità di mente e natura (e questo è anche un invito a leggere la sua opera postuma, Dove gli angeli esitano).
Quella cautela che suggerisce forme e personaggi nuovi, e addirittura eterodossi, a una piccola rassegna su «Il Teatro e il sacro» che si è avviata in questo mese di luglio nelle pievi e nelle cripte di Arezzo. Quella cautela, infine, che ci fa riprendere in mano un volume da tempo dimenticato di Silvio D'Amico, e ripercorrere, attraverso il suo entusiasmo di allora (il libro usci nel 1954), un'intravista «rinascita del dramma sacro».
Che una sacralità teatrale possa rinascere anche oggi è forse possibile. Un rigore perlomeno, una probità non coinvolta dalle speculazioni mercantili dell'impresa teatro, dai malgoverni e dalle malversazioni che la regolano. San Miniato parrebbe perfino il posto giusto: alta, guardinga e un tantino assente dai traffici commerciali della sottostante valle dell'Arno.
Ma se la scelta d'allestimento fatta quest'anno probabilmente mira a tutto ciò, non altrettanto si può dire del risultato. La grande strada maestra è l'ultimo testo completo di August Strindberg. Il proseguimento ideale di Verso Damasco, ma anche la sua autobiografia spirituale, affidata nel 1909 alla forma dello «stationen drama». In pratica, il viaggio dell'individuo attraverso le tappe di un mondo che in quanto mondo si mostra: una Divina Commedia ribaltata in terra, con le sue trappole civili, i suoi cattivi caratteri, i suoi profetici appelli. Un testo di larga dialettica, di lunghe interlocuzioni fra personaggi che celano la tentazione del monologo. Un testo che scava nel gorgo della riflessione utilizzando figure e simboli: il Viandante, il Maestro di scuola, l'Assassino, il Giapponese, il Tentatore, doppi probabili dell'unico protagonista vero: non il Cacciatore, come da copione, ma Strindberg stesso, alle prese con le sue ultime, devastate inquietudini. Una potente costruzione antiteatrale, dunque, che la regia di Mario Morini, non si azzarda a distaccare dalla pagina e affida a una esemplarità statica, tra una quasi impercettibile scenografia di neri archi (a firma di Stefano Pace) e i ruoli necessariamente rigidi da consegnare ai protagonisti Massimo Foschi, Milena Vukotic, Carlo Simoni e una compagnia fra cui spiccano Mino Cundari e le caratterizzazioni grosse di Giancarlo Condè.
ROBERTO CANZIANI, Corriere di Pordenone, 27 luglio 1990
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