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La recensione di Silvio D'Amico
 

La recensione

 

Una parola decisamente cristiana

 

Uno stupendo dramma postumo di Ugo Betti, "L'aiuola bruciata", è stato messo in scena da Orazio Costa fra le mura venerande di quel vetusto tempio intitolato a San Francesco, che già ospitò alcuni degli spettacoli più belli offerti dall'Istituto del Dramma Popolare al pubblico del nostro dopoguerra. L'architetto Bellucci ha felicemente inserito, fra i pilastri giganti del tempio, una vasta scena plastica raffigurante l'interno di una massiccia casa di campagna, che si suppone presso il confine di un paese innominato. Qui da un pezzo si è rifugiato il protagonista del dramma, Giovanni, capo politico in ritiro, in compagnia della moglie Luisa.
E perché mai cotesto ritiro, se egli non è né decrepito né privo di vigore, e la sua feroce passione, conquistato il potere, non ha più nemici tranne quelli esterni, seguaci di una ideologia opposta, di là dal confine? Qui presto si scopre che un dramma intimo ha sconvolto l'animo dell'uomo e reso dolcemente o crudelmente maniaca la sua donna: la morte di un loro figliolo adolescente, precipitato in circostanze misteriose, anni fa, da una finestra sulla aiuola sottostante. Tuttavia, un tale motivo non sembrerebbe bastevole a spiegare il rifiuto che Giovanni oppone ai suoi antichi compagni di azione quando essi, guidati da un subdolo e autoritario Tomaso, si presentano a supplicarlo perché egli torni un momento fra loro.
Si tratta di questo. A sanare una volta per sempre il minaccioso, allarmante dissidio fra il loro paese e l'attiguo, i compagni si sono proposti di scavalcare le diffidenze dei rispettivi Governi, e di muovere in corteo verso il paventato confine, agitando una bianca bandiera di pace. Dalla parte opposta, per un'intesa segreta, si risponderà con un gesto uguale: i rappresentanti non ufficiali ma effettivi dei due popoli finalmente si incontreranno, si abbracceranno, concluderanno essi la desiderata, effettiva conciliazione.
Ma per quale ragione a un tale atto ci vuole la presenza di Giovanni e non quella, poniamo, di un altro capo
della sua stessa fazione, il vecchio e autorevole Nicola? Perché Nicola è assai gravemente malato, è sull'orlo della tomba: tale lo vediamo apparire anche lui a pregare Giovanni, a stento sorretto da una giovane donna, Rosa, la quale, uccisole il padre dagli avversari in un tumulto politico, si è piamente votata all'assistenza dell'infermo.
Senonché, il contrasto fra i persistenti inviti dei compagni e i dinieghi di Giovanni non si risolve. Gli è che, proprio adesso che i suoi hanno in mano il Governo, Giovanni non crede più ai principi della comune rivoluzione. La morte del figliolo ha operato in lui una crisi profonda. Desolate o atroci sono le dispute fra lui e la moglie sopra un'eterna questione, il perché di quella morte: e finiremo con lo scoprire che essa fu volontaria: il ragazzo si uccise perché si sentiva solo, indifeso, abbandonato. Questo ha appreso, ora, Giovanni: che l'inesorabile credo sociale dei suoi compagni, il suo credo di ieri, non esaurisce la realtà, le è estraneo, la nega. Esso fa, degli uomini, una massa cieca, da manovrare come strumento passivo, senza quello che conta: l'amore dell'individuo. È l'individuo che va amato, difeso, e « liberato »: l'individuo uomo: solo essere, fra tutti quelli della creazione, consapevole del suo dolore, tormentato dal problema della sua effimera sorte terrena, anelante a una trascendenza dove soltanto potrà trovare il suo appagamento.
Scopriremo poi dell'altro: e cioè che la proposta dei compagni non è se non un tranello. A quel modo che il padre di Rosa cadde ucciso per mano, non già d'avversari come fu fatto credere, ma di camerati, in seguito a un segreto ordine di capi bisognosi d'un morto per creare nella folla un'indignata reazione, a quello stesso modo oggi Giovanni dovrebbe essere sacrificato alla causa. Al suo apparire sulla linea del confine, qualcuno sparerà contro la sua bandiera bianca: e sarà, non già il segno della pace, ma l'incidente di frontiera, il pretesto ad una nuova e più atroce guerra.
Ed è Rosa, la giovinetta pura e fidente, che raccolta questa confessione dalle labbra del morente Nicola, in un primo momento accorre a rivelarla a Giovanni, perché si salvi. Ma in un secondo momento ella stessa, superando l'orrore di quella macchinazione che un giorno costò la vita a suo padre, si persuaderà che no; che lei, e non Giovanni, potrà veramente divenire ostia di pace. E va lei, ad agitare, oltre la porta della vecchia casa, il drappo bianco; e cade colpita a morte. Allora Giovanni ne prenderà la salma tra le braccia, e con quella si avvierà verso il confine: sicuro che non sarà più respinto, ma ascoltato.
Sappiamo d'aver dato, d'un così vasto e complesso dramma, un riassunto quanto mai imperfetto e monco: ma, anche a disporre di più tempo e più spazio, sarebbe difficile altrimenti. In verità, alle sue linee essenziali che abbiamo cercato di esporre, esso intreccia una quantità d'altri motivi, impossibili a riferirsi partitamente. Ricorre fra tutti, e a tutti sovrasta, quel pensiero della Morte che, immanente nella massima parte dei drammi e racconti e versi del Betti, forse non era stato mai così ostentato in primo piano, come in questa sua opera postuma: la quale sembra lasciata da lui come ultimo testamento ai suoi fedeli, prima di varcare per suo conto le soglie del Mistero.
Un disperato appello di Luisa, che rifiutando d'ammettere l'annientamento del figlio, lo chiama e lo sente vicino e gli parla come fosse vivo; e i suoi contrasti, ora labili, ora peggio che aspri, col marito ch'ella finisce per denunciare assassino del figlio, affidandolo alla vendetta dei camerati nell'atto che egli tenta la fuga; e l'altro contrasto, grave di inattesi pensieri, tra lo straziato Giovanni e l'ipocrita, atterrito, disfatto Nicola; e il tema della innocenza redentrice, non nuovo nel Betti, ma non mai come qui proposto con sì aperto, evangelico assenso; tutto questo e altro, fanno, della commossa tragedia, una continua sinfonia, d'amplissime risonanze, quali il teatro italiano non aveva conosciuto da Pirandello in poi.
Di rado il linguaggio del poeta, sempre così conciso, pregnante, procedente per rapidissimi scorci, in una mirabile conciliazione del parlato col lirico, aveva raggiunto una così superba essenzialità. E non mai come in questo poema, arditamente accolto dall'Istituto del Dramma Popolare fra le mura d'un tempio, il Betti aveva pronunciato una parola così decisamente cristiana.
Ciò non significa che tutte le significazioni del dramma, a un primo contatto con esso, debbano risultare chiarissime a tutti. Ma qui è intervenuta l'opera del regista, mirabilmente chiarificatrice, pur senza rimuovere le ombre dell'arcano in cui il poeta deliberatamente l'ha avvolta. Raramente Orazio Costa, benché provatissimo interprete di proposizioni spirituali, era giunto a una composizione scenica di così alto stile.
Giova dire che questa volta egli disponeva d'attori di gran rango, le cui diversissime personalità è tuttavia riuscito a fondere in un insieme di compatta perfezione. Voce piena d'ansie quella d'Evi Maltagliati che era Luisa; dizione rotta da un intimo pathos quella di Camillo Pilotto; e pieno di tragico disfacimento Sandro Ruffini nelle squallide sembianze del morente Nicola; e aridamente categorico Roldano Lupi nella secca sagoma di Tomaso; e tutta limpida Stella Aliquò nella fede innocente della giovinetta Rosa. Virile e sicuro il Da Pasano nelle apparizioni d'un altro compagno. Note crudamente commentatrici di Roman Vlad. In conclusione, spettacolo esemplare e di suggestioni e commozioni profonde; come hanno sanzionato le entusiastiche accoglienze fattegli da un pubblico foltissimo ed elettissimo accorso da tutta Italia. Le poche repliche forzatamente cesseranno la sera del 28.

 

SILVIO D'AMICO II Tempo, Roma, 26 Settembre 1953




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