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L'Unit� - La recensione di Aggeo Savioli
 

Fedeli alla menzogna
Non è stata una scelta di comodo, quella fatta quest'anno dall'Istituto del dramma popolare. Meno che mai. Bernanos, si sa, è uno scrittore sgradevole, inquieto e inquietante. Benché quasi tutta tradotta e pubblicata in italiano, la sua opera narrativa e saggistica non ha goduto, in genere, di grande fortuna da noi, nonostante
che, da alcuni suoi titoli, si siano ricavati degli apprezzabili film (fra cui lo splendido Mouchette di Robert Bresson); e nonostante l'eco suscitata, all'epoca, da quei Dialoghi delie Carmelitane che proprio qui, a San Miniato, Orazio Costa allestì nel lontano 1952.
A propiziare la messinscena de L'impostura c'era, comunque, il notevole esito, tra il marzo e l'aprile passati, dell'edizione parigina, firmata da una regista, Brigitte Jaques, che, con i suoi principali collaboratori, si è presa cura anche dello spettacolo attuale, potendo contare, almeno nelle sue «punte», su una compagnia rispettabile. Adattamento d'un romanzo (il secondo di Bernanos, datato 1927 e dunque di poco successivo a Sotto il sole di Satana) dalla forma già particolare, il copione approntato da Bonitzer e Wajcman si condensa, del resto, in un «gioco di massacro» tutto dialogico, pertanto bisognoso del teso impegno di attori «di parola»; quantunque, poi, dalle stilettate verbali che i personaggi si scambiano, conseguano, per via diretta o indiretta, casi di morte anche violenta, come il suicidio dello sventurato giornalista Pernichon, abbandonato dal maestro e confessore, l'abate Cénabre, quindi spinto alla disperazione dalla consorteria politico-letterario-mondana nelle grinfie della quale è venuto a trovarsi.
È un mondo di impostori (laici o religiosi) quello che Bemanos ci rappresenta. Campione estremo di tale doppiezza Cénabre, teologo e scrittore di fama, che d'improvviso ha perduto la fede, e il suo tormento è arrivato a confidare al mite, povero, limitato ed onesto abate Chevance, ma ha deciso in seguito di accantonare ogni problema, continuando a gestire un potere spirituale (e materiale) svincolato ormai dalle sue radici profonde (sebbene non sia detto che il messaggio divino non possa trasmettersi egualmente, mediante quel tramite di per sé indegno).
Circola, ne L'impostura, un'aria di Francia borghese (e aristocratica) Anni Venti-Trenta, meschina e corrotta, intrigante e ipocrita: disponibile, di lì a non molto, a tentativi di golpe fascista e, più tardi, all'esperienza tragica e grottesca del regime di Pétain. Al di là delle sue esplicite posizioni politiche, varie e contraddittorie, il cattolico Bernanos (che, a ogni modo, distribuisce i suoi colpi fra credenti e miscredenti) vede giustoe a lunga distanza.
Ma il quadro storico e sociale del dramma (forse più chiaro per il pubblico transalpino) tende a sfumare, o ad assumere vaghe sembianze, dinanzi ai nostri occhi. Il conflitto che si dipana, «notte» dopo «notte», sulla ribalta scarna di arredi, si fa accentuatamente metafisico, pur se calato, a momenti, in situazioni molto «corpose» (e magari scostanti), segnate da infermità non solo morali, da un senso acuto di tristezza e deperibilità della carne dell'uomo.
Roberto Herlitzka è un Cénabre ambiguo a dovere, ma anche sprezzante e autoritario, come si conviene. Al suo Chevance, Antonio Pierfederici dà un timbro esatto di spoglia umanità. Mario Maranzana colorisce con sinistra efficacia l'apparizione del barbone Framboise, deforme specchio del protagonista. Un bel risalto conferisce Franco Castellano alla desolata figura di Pernichon. Più deboli, nel complesso, gli apporti degli altri interpreti. Consensi cordiali, ma senza entusiasmo.
AGGEO SAVIOLI, L'Unità , 21 luglio 1989




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