La recensione
Tragedia umana e commedia divina
La "Maschera e la Grazia" (1925) non è soltanto il capolavoro di Enrico Ghéon e, insieme all’"Assassinio nella Cattedrale" di Eliot, uno dei capolavori del teatro cristiano del nostro secolo, ma offre la singolarità di contenere insieme, originalmente collegate e non meccanicamente sovrapposte, una tragedia e una commedia. La tragedia tutta umana dell'attore e la commedia tutta divina della salvezza in Cristo.
Ginesio sente, in tutta la sua dolorosa e gioiosa complessità, la tragedia dell'attore, più severamente drammatica nella persona, o maschera, del protagonista. Ginesio ha rinunciato alla vita vera, a una vita, alla sua vita, per rappresentare con puntuale consapevolezza le vite degli eroi che gli vengono fornite dai poeti. Egli deve dare la perfetta illusione delle anime più diverse e a lui non resta che un'anima d'artista al servìzio della fantasia altrui e del piacere dei suoi ammiratori e padroni.
La sua concezione è l'opposto di quella del famoso "Paradoxe sur le comédien" del Diderot. Egli sa ed afferma che il grande attore deve sentire con tutte le potenze del suo essere i pensieri e le passioni del personaggio poetico; deve trasferirsi in lui, immedesimarsi in lui. Ma questo impegno necessario e risolutivo implica una rinuncia quasi totale alla propria essenza, un abbandono della propria vocazione. Per essere vivo sulla scena l'attore deve essere, fuor del teatro, quasi un morto.
Ma nel dramma del Ghéon noi assistiamo, a poco a poco, alla trasformazione dell'attore di genio in uomo dei dolori. Si trova dinanzi, lui Ginesio, ai problemi immediati e personali che saranno gli strumenti per condurlo a una trasfigurazione che sarà, insieme, la sua morte e la sua raggiunta felicità.
Si trova dinanzi, prima di tutto, l'Imperatore, il padrone, che lo sforza ad accettate una parte che istintivamente gli ripugna, quella di martire cristiano. Ma Ginesio, nonostante la nobiltà del suo animo e la virtù della sua arte, è uno schiavo e deve obbedire.
Quasi allo stesso tempo Ginesio si trova dinanzi, come uomo e non più come artista, alla prova suprema di tutte l'anime sensibili: alla prova dell'amore.
L'amore-devozione, casto e taciturno, della vergine Albina; l'amore-passione, furioso e geloso, dell'attrice cortigiana Poppea, già amata da lui in un giorno lontano. Tutt'e due questi amori lo turbano ma riesce a ritardare la scelta, guidato dal presentimento di un amore più sublime che li sorpasserà, riuniti in un comune sacrificio.
Infine l'ultima prova, la più decisiva di tutte: l'incontro col fratello. Felice, da lui un tempo teneramente amato,s'è fatto cristiano; e Ginesio non l'ha voluto più vedere e odia il Dio che gliel'ha tolto. Ma ora, dovendo impersonare sulla scena un martire cristiano, desidera rivedere Felice, per sapere da lui il segreto dì quella misteriosa e detestata fede. L'invito parte da uno scrupolo artistico, ma nel colloquio, uno dei più belli del dramma, l'elemento umano riaffiora e par quasi che voglia sopraffare e sbaragliare tutti gli altri. Ginesio ritrova i dolci ricordi dell'amor fraterno e intravede, nelle parole e negli sguardi di Felice, la bellezza eroica dell'amore divino.
Ormai l'incantesimo è rotto : attraverso i sentimenti umani la Grazia ha preparato la sua Vittoria. Sotto la maschera dell'attore ha ricominciato a palpitare, a sognare, a soffrire l'uomo. Dall'uomo risuscitato sboccerà il martire e il santo. L'antico istrione saprà volare dalla falsità del palcoscenico alla verità eterna del paradiso.
Nel terzo atto assistiamo a questa miracolosa sublimazione di Ginesio: la sua onestà artistica l'ha condotto a bruciarsi col fuoco che non perdona; l'amore umano ha predisposto in lui l'esigenza di un amore senza scorie e senza confini; la prepotenza del vecchio e annoiato imperatore avrà per risposta la ribellione finale, il ritorno gaudioso all'Imperatore dell'universo.
A un certo punto Ginesio dimentica e tralascia il mediocre testo del mediocre poeta e gli sgorgano dall'anima illuminata le parole della fede, le cocenti e trionfanti parole dell'amore scoperto e conquistato. Ginesio non è più Io schiavo di Cesare ma il soldato di Cristo. Non è più il simulacro del martire Adriano ma l'uomo Ginesio, il nuovo martire Ginesio. Sull'estrema punta della finzione è spuntata la luce della Rivelazione. Alle grazie di Diocleziano succede la Grazia di Cristo. La tragedia dell'attore s'è risolta nella redenzione del cristiano.
Questa conversione segnerà la morte del suo corpo ma è il lieto fine della sua anima risorta, promessa di beatitudine senza fine, d'infinito indiante amore.
Enrico Ghéon non s'è lasciato indurre alla tentazione dei facili effetti spettacolari e melodrammatici e non ha posto sulla scena il processo e il martirio dì Ginesio. Egli ha voluto fare opera tutta spirituale, che trae la sua forza dal dissidio e dal cozzo degli umani sentimenti per giungere alla affermazione inconfutabile del soprannaturale.
Dio è il protagonista di questo dramma ma un protagonista invisibile, non già figura posticcia che interviene alla fine, per risolvere il groviglio delle vicende, come nelle tragedie greche. È presente fin dapprincipio ma nel cuore predestinato di Ginesio. Egli fa sì che a poco a poco nell'attore risusciti l'uomo, l'uomo nuovo nel quale si manifesterà il rosso splendore della Grazia.
L'impresa era arditissima ed era stata sol confusamente e rozzamente abbozzata nelle Sacre Rappresentazioni del Medioevo. Noi tutti siamo attori su quello che Calderon chiamava « El gran teatro del mundo » e la Grazia ci tenta e ci attende. Enrico Ghéon ha reso visibile e plausibile questa irruzione del divino nell'umano, in un dramma che non è soltanto quello di San Ginesio.
GIOVANNI PAPINI L'Avvenire d'Italia, Bologna, 12 Luglio 1947
|