Approdo nei ricordi
Testo grandissimo e forse irrappresentabile, estremo tormento autobiografico di August Strindberg, La grande strada maestra ha raggiunto la sua prima rappresentazione italiana a ottant'anni suonati da quando fu scritto, senza i suoni di tromba dell'avvenimento.
Ma l'annuale Festa del Teatro di San Miniato intende costituire per la scena un luogo schivo di ascesi, come quando ai suoi inizi ospitava Eliot e Copeau, è rimasta un'isola un po' rarefatta nonostante recenti peripezie nel repertorio e esecuzioni sempre più discontinue, con un suo pubblico imperturbabile alle flessioni d'attenzione anche in quest'estate di sindrome da mondiali.
Eppure è arduo da conseguire lo zenith che, al cominciare del dramma, permette al protagonista di contemplare dall'alto l'universo umano; e s'è visto all'anteprima un infiltrato tra i critici e gl'invitati della Cassa di Risparmio di S. Miniato andarsene a metà dell'itinerario con qualche solitario improperio e un insistito «addio» a rispondere a chi dalla scena faceva piovere come da copione gli «arrivederci».
E quando lassù ci si compiaceva per il silenzio avvolgente, da un lontano juke box sprizzava una canzonetta degli anni Quaranta, ennesima riprova che neppure in uno storico borgo c'è oggi per un teatro all'aperto la possibilità di sottrarsi agli echi, ai condizionamenti, ai disturbi dei nostri giorni.
Ma l'Istituto del Dramma Popolare non s'è proposto di sfuggire ai conti con la realtà concreta. Peccato allora rinchiudere la pièce in un involucro nero di arcate metafìsiche, nel materiale sintetico da studio di ripresa prescelto da Stefano Pace: la facciata del Duomo, il suo portale, le scalinate, le balaustre di pietra, i palazzi terminali della bellissima piazza non potevano offrire una geometria ascensionale più autentica a questo percorso nel nostro profondo?
Si tratta anche di un tragitto nella storia e nel destino dell' uomo. Il Cacciatore dalle molte vite che muove il dramma è simile a Faust nel suo spaziare nel tempo e nella geografìa, o a Peer Gynt perché conosce l'angoscia di un'identità da fissare, ma già prefigura la condizione di prigionia di Joseph K. nel viaggio per stazioni compiuto sdoppiandosi in altri se stessi. C'è nella sua storia un nuovo approdo a Damasco; ma la cima è il punto di partenza, da cui ripercorrere a ritroso i gironi mentali di un inferno di travestimenti, permeati dalla maledizione della dialettica, cercando un'anima e trovando invece nel vagare tra le allegorie la corporalità del passato, i propri ricordi, l'ossessione della donna, addolcito stavolta da un sorriso di bambina, le tracce di altre fughe dalla corruzione e dal male.
In quel passato avveniristico coglie anche profetiche allusioni ai guasti della civiltà dell' immagine e un confronto con la speculazione orientale. Dopo tutto questo Sconosciuto è un saggio che sa leggere nel futuro e non in se stesso, in qualche modo un intellettuale: un avvocato che modella lo sterminato monologo per perorare la propria causa e assumere la veste dell'accusatore, un architetto delle forme del mondo che ricorda di avere realizzato un giorno un teatro.
Come Strindberg... E alla simbologia dello spettacolo, prima del finale appello al divino, ritorna più e più volte chi «ha sofferto l'atroce dolore di non essere colui che voleva essere».
Sulle colorazioni della parabola teatrale si diffonde anche la traduzione da molte lingue di Enrico Groppali. E si distende la messinscena di Mario Morini, organizzando la recita anziché in termini di peregrinazione come un susseguirsi di visioni che si manifestano al protagonista: i visitatori escono dal fondo o da una botola centrale, segnalati da una luce bianchissima, a volte legati assieme come anime dantesche o fìgure pirandelliane.
Il viaggio è peraltro contrassegnato da una linearità anche troppo scarna, come successione meccanica di incontri e scontri elementari, quando non didascalici, senza raggiungere il senso del mistero e della follia, toccati da Leo De Berardinis nei frammenti della Grande strada da lui inseriti qualche mese fa nel buio della sua Metamorfosi. La parola rimane spesso piatta, orizzontale, ingombrante, inadeguata a vivere.
A trasfigurarla ci pensa l'interpretazione sentita e lampeggiante, dolorosa, di Massimo Foschi, nei grandi momenti della quotidianità ritrovata e del suo rifugio nel rovello senza fine della solitudine, in un saliscendi labirintico di toni oratoriali e di riflessioni ad alta voce che ingabbiano l'ascoltatore.
Piano e persuasivo con l'immediatezza di una spoglia presenza gli risponde Carlo Simoni, e capace di mimetismi e di perfìdie si rivela nelle sue diverse incarnazioni, anche nell'immagine captante dell'ultimo tentatore, la bravissima Milena Vukotic. A Mico Cundari, più francescano che zen, è affidata la parte sorprendentemente presaga dell'uomo di Hiroshima, il luogo «maledetto e contaminato» di una nascita da dimenticare.
Tra gli altri vanno ricordati Giancarlo Condé, rituale «vilain», Gianluca Farnese, Eliana Lupo, nel piano generale di una corretta lettura accolta con calore.
FRANCO QUADRI, La Repubblica, 25 luglio 1990
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