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Avvenire - La recensione di Luca Doninelli
 

«Templari» in scena per i cattolici d'oggi
A san Miniato, severamente appoggiata sulle colline a ridosso di Empoli, sarebbe opportuno che non solo gli amanti del teatro ma gli amanti dell'Italia facessero tappa intorno alla metà di luglio, quando l'Istituto del Dramma Popolare celebra la sua Festa del Teatro. Quest'anno la scelta di porre al centro della festa l'atto unico di Elena Bono I Templari assume - prima di ogni considerazione critica sul prodotto - un significato che l'osservatore attento deve cogliere: la metafora dei Templari, ordine monastico-guerriero nato durante le Crociate - descrive egregiamente una condizione di prigionìa culturale, di assedio, di cui la coscienza cristiana è oggetto nel tempo presente. Sostituite alle accuse mosse ai Templari altre accuse, odiosamente note a tutti, per comprendere come il vero tema di quest'anno sia l'avversione al cristianesimo nel mondo di oggi. La testimonianza cristiana porta sempre con sé la possibilità del martirio, e non solo nelle cosiddette "terre di missione".
Il testo di Elena Bono rivela, come sempre, i pregi dell'anziana scrittrice, che stanno nella vividezza dell'elaborazione linguistica, del pastìche: una commistione sempre ben controllata che trova soprattutto nei personaggi di bassa condizione una messa a punto davvero felice.
La scena è stata divisa dall'ottimo regista Pino Manzari in diverse sezioni, con un piano alto destinato al lunghissimo colloquio tra il Precettore dei Templari e l'Uomo Nero (lo stesso Filippo?) che lo tiene prigioniero; un piano basso, dove giace un novizio dell'Ordine, ferito a morte, sotto l'assistenza di una povera sgualdrina di buon cuore, la Gisa, e di Rocco da Sezze, scudiero dei Templari, uomo rozzo ma fedele e di buon cuore. Ai lati, poi, ci sono le celle dove i prigionieri trascorrono il tempo in preghiera.
L'effetto che nasce dal contrasto tra piano alto e piano basso - di sopra, una sorta di partita a scacchi tra due potenti a diverso titolo; di sotto, la lotta concreta, profana e sacra insieme, tra la vita e la morte - è la cosa migliore dello spettacolo. Soffre di una certa lungaggine la conversazione dei due potenti, che spesso si riduce a un interminabile monologo, non sempre limpido, dell'Uomo Nero. Più brillante, viceversa, la parte popolare del dramma, con l'eccellente Massimo Foschi nei panni di Rocco da Sezze, una parte minore che la bravura dell'attore trasforma in principale.
Bravi anche gli altri attori con un "più" per Gabriele Carli (il perfido e servile Pocapaglia), per l'appassionata Gisa di M. Elena Camaiori e per il piccolo Federico Orsetti nei panni del bastardello Alì. Più ingrate le parti di Marco Spiga (il Precettore Templare), di Mattia Battistini (il novizio morente) e di Silvia Pagnin (Tota, la sorella di Gisa). Forse, però, sarebbe tempo che i promotori di questa straordinaria Festa cercassero, nel panorama italiano, altre persone che condividano le loro preoccupazioni, altre esperienze similari, altri poeti che sappiano dedicare a questa giusta causa nuove energie. Perché la causa le merita. È vero, infatti, che il cristiano rischia quotidianamente, nel mondo di oggi, la sorte toccata ai Templari.
Luca Doninelli, Avvenire, 20 luglio 2002




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