La recensione
Si spenge a mezzanotte la lampada di Schweitzer
Inserire il nome di Gilbert Cesbron nel quadro delle manifestazioni che da otto anni a questa parte l'Istituto del Dramma Popolare viene allestendo come altrettante « feste del teatro », significa mantenere fede ad un impegno che apparve, fin dal primo momento, oltremodo difficile: ricreare, cioè, per un pubblico moderno, lo spettacolo sacro senza con ciò fare ricorso a testi classici ed a rievocazioni certo importanti, ma che non possono ormai parlare più, con la necessaria immediatezza, allo spirito nostro. I travagli ed i fermenti cristiani di un'epoca apparentemente inaridita, possono ancora trovare la loro espressione scenica? A questa domanda l'Istituto sanminiatese, sorto per volontà di pochi entusiasti e mantenuto in vita attraverso mille sacrifici, intende appunto dare una risposta positiva.
Ad aprire la serie degli spettacoli fu, come i lettori ricorderanno, il Ghéon della "Maschera e la grazia": poi in successione di tempo fu la volta di Eliot, Cicognani, Copeau, Maulnier, Bernanos, Betti e, oggi, Cesbron, il discusso autore dei "Santi vanno all'inferno", con "È mezzanotte, dottor Schweitzer!".
Cinque sono le persone del dramma, che è ambientato nel Congo Francese, alla vigilia della guerra mondiale: agosto 1914. Cinque persone e cinque diversi destini che hanno condotto i protagonisti ai limiti della boscaglia, fra tribù selvagge. Schweitzer ha abbandonato scientemente moglie e figlia, carriera di medico e successi di musicista, per allestire sotto il ciclo dei tropici un rudimentale complesso ospedaliere. Lo anima uno spirito di apostolo, lo sorregge una fede adamantina. E, sia pure, una fede diversa da quella di padre Carlo Ferrier, il missionario per il quale l'azione è la parola, l'azione è il martirio, la rinuncia, il sacrificio. Tutt'altra, la strada del governatore Leblanc, il funzionario ligio al suo dovere, ma che non viene mai meno al buon senso, al raziocinio pratico. Un uomo, come suol dirsi, con i piedi sulla terra. Anche il comandante Lieuvin, che fu commilitone di padre Ferrier prima che questi divenisse sacerdote, guarda alla vita senza abbandoni spirituali: ma quanto in Leblanc è accettazione, in Lieuvin è sete di conquista, è orgoglio di combattente, di soldato che vuole muovere le acque stagnanti di una società.
Tutti costoro hanno fatto la loro « scelta »: hanno preso una strada per seguirla fino in fondo, sanno il perché della loro vita. Solo Maria, l'infermiera, è giunta alla capanna di Schweitzer come una foglia portata dal vento: il suo passato si ignora, ma si intuisce. La domanda che l'assilla — esiste la felicità? — è di per se stessa chiarificatrice. Attorno a lei si agitano le passioni di Leblanc e di Lieuvin: ma essa è sopraffatta, in definitiva, dalla fiamma pura, luminosa di Schweitzer e di Ferrier.
Questo è l'ambiente psicologico del dramma. Nel quale al di là dei riferimenti storici (Schweitzer non è creatura di fantasia e in Lieuvin ed in padre Ferrier sono adombrati, rispettivamente, Lyautey e padre de Foucauld) — riferimenti che poco interessano ai fini critici — sono facilmente rintracciabili dei valori simbolici: ogni personaggio assume, infatti, il carattere di un mondo compiuto, senza scampo destinato a scontrarsi con gli altri. E il giuoco delle contrapposizioni si fa sempre più dichiarato fino alla crisi che travolge uomini e cose: la guerra. Davanti a questo fenomeno le reazioni sono diverse: il missionario si immola, vittima innocente; il soldato, che è sul punto di coronare il suo sogno d'amore, si affretta al suo posto di combattimento; il funzionario diviene il freddo esecutore di ordini e Schweitzer, l'apostolo, deve soccombere alla prigionia perché a niente vale la sua opera umanitaria dinanzi agli interessi delle nazioni in conflitto.
Sulla capanna è accesa una lampada, faro di carità per quanti hanno bisogno di soccorso. Sarà spenta a mezzanotte, all'ora in cui il dottore viene arrestato. Sembra che il buio abbia inghiottito le coscienze umane, la terra stessa. Ma resta ancora Maria: l'unica che non ha fatto la sua scelta. È lei che raccoglierà la missione di Schweitzer e riaccenderà una luce di speranza per l'avvenire. Lo spirito ha vinto: nessuna catastrofe, neppure la guerra, può sopprimere la legge dell'amore.
Il difetto maggiore dell'opera consiste nella staticità: ma non bisogna confondere questo termine con quello dell'antiteatralità (anche se è vero che il teatro deve essere azione). La dialettica di Cesbron non ha soste, di pagina in pagina attinge più profonde verità, non si disperde che raramente in pause minori. L'azione c'è: intima e non esteriore, ma c'è.
Difficile è stata, di conseguenza, l'opera di Luigi Squarzina che ha dovuto scavare, battuta per battuta, tutti i valori del dramma per metterli nella dovuta luce e nella giusta prospettiva, anche se talune zone grigie — che sono nel testo e denunziano qualche compiacenza retorica — non hanno potuto essere cancellate. Ma il ritmo impresso alla recitazione, il concerto degli effetti sonori e di luce hanno valso a dare all'opera di Cesbron il meritato rilievo.
Dal canto loro gli interpreti sono stati all'altezza del regista. Primo fra tutti Ernesto Calindri, che siamo abituati ad incontrare in un repertorio brioso e svagato e che ha dato una delle prove più belle della sua carriera. Eccellente lezione di come un attore comico può tradurre un personaggio drammatico in grazia di un' autentica scuola. Elena Zareschi è stata una Maria tormentata, ansiosa, fremente, convincente. Carlo Ninchi ha vestito i panni di Leblanc con piglio sicuro, con un sottile variare di sfumature, con ricchezza di mezzi. Mario Feliciani e Giorgo Piazza erano padre Ferrier e il comandante Lieuvin: entrambi alle prese con due personaggi che non era facile liberare da certe pastoie di enfasi e di letteratura, hanno sostenuto il peso della parte con disinvoltura, talvolta soccombendo loro malgrado alla metrica della battuta. Alfredo Bianchini ha cantato, con la grazia che gli è propria, le canzoni africane. Ed il piccolo Ellis, il mulatto, ha avuto la sua parte di simpatie. Suggestiva la geniale scena del Polidori.
Successo indiscusso. Un pubblico imprevedibile, data la instabilità del tempo, ha chiamato più e più volte alla ribalta attori e regista. E da stasera le repliche.
PAOLO EMILIO POESIO Nazione Sera, Firenze, 26 Agosto 1954
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