La recensione
Alla ricerca della propria identità
«Al Dio ignoto», dramma-commemorazione della figura del Cristo, scritto da Diago Fabbri, è andato in scena in prima assoluta sul sagrato della piazza del Duomo, in occasione della XXXIV Festa del Teatro a San Miniato. Il nuovo staff dell'Istituto del Dramma Popolare, nell'affidare la direzione artistica a Marco Bongioanni con la collaborazione organizzativa di Piergiorgio Gili, vuole rilanciare la ricerca sulle tematiche del pensiero religioso con proposte più aderenti ai tempi sull'espressività drammaturgica cristiana. Orazio Costa e Pino Manzari nell'allestire la messa in scena della ponderata religiosità, ragionata dal Fabbri su indicazioni programmatiche desunte da Elliot, Blok, Dostoievsky, hanno voluto instaurare con la precisazione recitativa, il registro classico dell'interpretazione, un parallelo dialettico con il pensiero indagatore profondamente cristiano del Fabbri. Ne è scaturita una vera commemorazione del Cristo, non quella rappresentazione che il collage dei testi induceva a produrre.
Le prove aperte di un gruppo teatrale sono il legante delle varie situazioni drammatiche. Nel disagio laico della vita artistica, gli attori tentano il ritrovamento della propria identità di interpreti, di veicolatori-precisatori di messaggi altrui. Il gruppo come di discepoli di Cristo, tende a lasciare i fronzoli, le gigionerie, per giungere al nocciolo della questione, attraverso una serie di tesi ed ipotesi note. I riferimenti ad Amleto, a quell'essere o non essere di fondamentale importanza per decifrare il bilico dell'identità, porta la compagnia ad una «prova aperta» di esperienze vissute, nel parametro continuo con gli atti della dottrina, le contraddizioni tra spirito e materia (le pietre in pane, unico miracolo possibile da parte del Grande Inquisitore dostoievskiano), il verificarsi nella realtà del senso misterico delle elegie del credere.
Con un testo denso di riferimenti, e un collage di brani scelti nello spessore del diverso credere in Dio di autori legati alla presenza terrena del Cristo, il dramma di Fabbri trova nella Resurrezione, testimoniata dall'apostolo Paolo, il suo centro focale, il suo essere dramma e commemorazione della figura divina. Gli attori su suggerimento del loro capacomico trovano nel rifiuto a «rappresentare» e tradurre in atti commemorativi il mistero del Cristo risorto, la loro funzione primaria. Il compimento di quella continuità inscuidibile tra discepolo e maestro, tra identità di uomo e mestiere d'attore.
Tema di base, rispondente in pieno alle intenzioni programmatiche dell'IDP, che — nella ricerca di formule popolari-cristiane, pone il suo intento artistico sin dal lontano 1947 («La maschera e la Grazia» di H. Gheon) — poteva forse trovare autori diversamente impegnati nell'idea cristiana del vivere, calati in carne e spirito nel dramma quotidiano delle coscienze.
L'aulico imposto dalla regia, sottolineato dalla scena di Titus V. Vossberg e dalle musiche originali di Sergio Prodigo, implica nell'attore una ricerca di stile recitativo consono alla duplice veste richiamata dal testo: uomo con il problema della fede, attore alla ricerca di una identità esistenziale.
Nell'esecuzione perfetta dell'intera Compagnia della Capranica si stagliano: Gianrico Tedeschi, Bianca Toccafondi, Angela Godwin, Andrea Bosic, Italo Dall'Orto e Franco Giacobini.
Giorgio Sebastiano Brizio Avanti!, 29 Luglio 1980
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