La recensione
il viaggio iniziatico di Strindberg
Con un estremo, affascinante paradosso, «La grande strada maestra», ultima opera compiuta di August Strindberg, conclude l'itinerario artistico ed esistenziale del suo autore nel segno dell'inizio, del ricominciamento. Adottando ancora una volta, e portando alle più ardite conseguenze, la forma dello «stationen-drama», in cui la successione delle singole scene non obbedisce alla logica interna dell'azione, ma a quella interna del pensiero, lo scrittore vi deposita — come in un testamento spirituale, è stato detto — i dubbi e gli slanci, i tormenti e le estasi di tutta una vita.
Ma il viaggio iniziatico che costituisce la struttura e il senso del dramma è un viaggio «rovesciato», il viaggio che parte dall'alto — dall'«aria purissima delle vette» — per affondare sempre più giù, nella «pena quotidiana», nelle «pene prenotturne», fra i Simboli sempre più atroci dell'incomprensione e dell'orrore, alla ricerca — non meno paradossale che salvifica — del corpo a corpo con l'ombra della divinità. E non è certo per caso che il personaggio nel quale più minacciosamente si incarnano quei simboli, il tronfio e dispotico Fabbroferraio, dimostra tutta la sua perversa ottusità proprio rifiutando di credere che si possa vivere «a ritroso», in senso apparentemente inverso a quello del calendario.
Questo testo grandiosamente impervio, in cui un duro allegorismo da sacra rappresentazione medioevale si fonde con l'autobiografismo più sottilmente moderno e persino, a tratti, con una «allegria» narrativa e fantastica da romanzo picaresco, non era mai stato rappresentato in Italia: il che conferisce di per sé alla messa in scena proposta l'altra sera a San Miniato dall'Istituto del Dramma Popolare la portata di un avvenimento.
Come dare continuità di racconto scenico a una partitura verbale così complessa e, per sua natura, così frammentaria? La risposta registica di Mario Morini, evidentemente sorretta da un'appassionata intelligenza del testo, mi è sembrata esemplare per semplicità e chiarezza.
Situando il viaggio del protagonista, il Cacciatore, in una dimensione puramente mentale, e sottolineando la natura e la funzione di suo «doppio», di suo prolungamento e rovescio simmetrico, implicite nel personaggio del Viandante, Morini ha impresso all'intera rappresentazione il ritmo e il timbro figurativo di un seguito di apparizioni, che procedono sia orizzontalmente, da quinta a quinta, come se un immaginario «tapis roulant» le convogliasse davanti al viaggiatore immobile, sia verticalmente grazie ad una botola riservata, in genere, alla comparsa delle figure più grottesche e surreali.
L'effetto centripeto così raggiunto ha consentito a Morini di concentrarsi, con esiti assai persuasivi, sulla vera e propria lettura e concertazione del testo. La peculiarità di una scrittura in cui le lunghe riflessioni lirico-filosofiche si intrecciano a balenanti dialoghi non di rado al limite dell'assurdo, peculiarità ben restituita dalla traduzione di Enrico Groppali, ne risulta illuminata e rilevata con grande nitore, e con quella che mi è parsa un'inconsueta e toccante aderenza all'idea di un testo non soltanto di parola, ma anche di poesia.
Fra i singoli interpreti, Massimo Foschi mi è parso certamente apprezzabile per presenza e prestanza vocale nel difficilissimo ruolo del protagonista, anche se non sempre, a mio modo di vedere, controlla come dovrebbe una sua naturale propensione all'enfasi. Molto preciso e sciolto Carlo Simoni nel fornirgli il controcanto come Viandante, e semplicemente ammirevole Milena Vukotic che si disimpegna con squisita duttilità in quattro ruoli diversi.
Accanto a loro, in una compagine felicemente priva di «buchi» e squilibri, hanno ben figurato Gian Carlo Condè in due gustose caratterizzazioni, Nico Cundari, Stefano Gragnani, Eliana Lupo e Gian Carlo Farnese a loro volta impegnati nel dare voce e corpo a più apparizioni e la giovanissima Elettra Farnese.
La scena, opportunamente essenziale e quasi inavvertibile, è di Stefano Pace; i costumi, molto belli nella loro sommessa libertà fantastica, di Anna Maria Heinreich. Non lunghissimo, ma intenso e vibrante, l'applauso finale del pubblico della «prima».
GIOVANNI RABONI Corriere della Sera, 21 luglio 1990
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