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La recensione di Paolo Emilio Poesio
 

Un crogiuolo di conflitti
L'imitazione di due grandi affreschi corrosi dal tempo, venati da fenditure profonde, evoca, sul palcoscenico dell'Auditorium di piazza Bonaparte — insolito spazio prescelto per celebrare la XXXIII « festa del teatro » — Alessandria e Cirene quali potevano apparire tra la fine del IV secolo dopo Cristo e il principio del V. I luoghi, vale a dire, in cui si ambientano Ipazia e Il messaggero di Mario Luzi, ora per la prima volta rappresentati assieme (di Ipazia, come si ricorderà, si era avuta un'anteprima  a  Firenze,  circa un  mese  fa).
I due pannelli del dittico sono, in apparenza, ciascuno a se stante: li collega la presenza del personaggio Sinesio, li collega dapprima la figura e poi la memoria di Ipazia. In realtà sono due facce di uno stesso tema, carico di inequivoci significati, il tema del « mutamento », dello scontro che si verifica quando vengono in frizione due diverse concezioni del mondo, quando l'uomo è messo alla prova nel passaggio fra tradizione e innovazione,
quando è costretto a una scelta fra la difesa dei valori acquisiti dal passato e i fermenti del presente già proiettati nel futuro.
Non a caso Luzd ha collocato Ipazia in un'Alessandria non immemore della sua grande stagione culturale e al tempo stesso guasta dall'impossibilità di contemperare la « cecità offesa del paganesimo retrivo » e la « cecità fanatica del cristianesimo eversivo », la persuasione e l'« intimazione della verità ». Ipazia è al crocicchio: essa arde di un fuoco interno che la fa conscia del suo destino, la morte per mano di una folla cristiana imbestialita, e tuttavia procede sulla sua strada senza remore, pronta a divenire vittima sacrificale (e giacerà dilacerata sul « pavimento di Cristo » simbolico agnello). Sinesio, pur ammirando Ipazia, pur sentendone le ragioni e la forza è, invece, l'altro aspetto dell'uomo alla prova: è cosciente che non si può negare l'evolversi della storia, bisogna, — per salvare il passato, le radici del passato — cercare di intendere le urgenze nuove, saperne leggere i motivi validi e conciliare così i due poli della controversia.
Lo farà, pagando di persona, nel Messaggero allorché, divenuto vescovo di Cirene, i suoi fedeli temono che mettendosi in contrasto con l'autorità civile egli distrugga quanto la Chiesa ha faticosamente conquistato. L'occasione è data dal messaggero di un re berbero che non viene indirizzato al prefetto di Roma ma al vescovo. Sinesio non esita: egli riceverà l'inviato del popolo di « predoni nomadi » che a lui è diretto. Ma la sua decisione, illuminata e coraggiosa verrà frustrata dall'intemperanza di una fede malintesa. Il messaggero verrà ucciso, una nuova guerra si profila all'orizzonte. Al vescovo non resta che andare di persona incontro al « nemico », che tale per lui non è, e offrirsi all'inevitabile sacrificio.
Già parlando di Ipazia accennai alla difficoltà che si prova a riassumere in una cronaca teatrale il viluppo di problematiche morali, spirituali e civili che sostanziano l'opera di Luzi: opera che non vuole essere ricostruzione storica (gli stessi riferimenti cronologici sono adoperati liberamente) ma è frutto di un intenso tormento poetico. Teatro di pensiero e di parola, certo: teatro nel quale non sono osservate regole ed effetti di tradizione scenica, ma dal quale scaturiscono sia riferimenti alle crisi che di continuo travagliano la storia del mondo —  compreso il nostro tempo — sia, soprattutto, dilemmi dell'anima, combattimenti interiori dello spirito.
A questa materia che offre poco appiglio visivo, Orazio Costa Giovangigli ha recato la sua sapienza di acuto e intento svisceratore della parola scenica, tanto più in quanto questa parola è anche e in particolare parola poetica. Non ha chiesto agli attori di « riempire » la scabra azione di gesti o mimiche superflue: li ha anzi tenuti a un'asciuttezza severa, evitando al tempo stesso di cadere nella pura lettura o nella pura dizione. Essenziale, pressoché nuda la stessa scena di Titus D. Vossberg: e lineari le musiche di Sergio Prodigo, eseguite da Nives Poli Rapp e da Lapo Bramante, quasi costante monodico sottofondo.
Tutti gli attori hanno risposto al massimo alle linee direttrici di Costa. Ottimo e l'aggettivo non è di comodo, Massimo De Francovich, intenso e austero Sinesio nell'uno e nell'altro testo: u'Ipazia adamantina, donna dal cuore virile, eppur combattuta nell'intimo, Ilaria Occhini; Gianrico Tedeschi ha dato misurata umanità alle riflessioni di Gregorio: molto mi è piaciuto Sandro Rossi quale prefetto di Alessandria: calda e dolente, appassionata Ione la bravissima Paola Bacci; una lode va a Ettore Toscano per il nitore con il quale esposto il prologo e ha sostenuto poi i ruoli di Teodoro e Demetrio; sapientemente ironico e diplomatico il prefetto di Cirene disegnato con la consueta sua sicurezza da Mico Cundari; impetuosa Irene è Barbara Salvati; Sergio Salvi da all'infido segretario di Sinesio accenti amari e torbidi. Fantasiosi ma rigorosi i costumi di Emilio Pucci.
All'anteprima ha assistito il cardinale Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze. Folto il pubblico e molto caldi  gli  applausi.
Paolo Emilio Poesio La Nazione, Firenze, 26 Luglio 1979




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