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Una scelta di pace - intervento di mons. Carlo Ciattini
 

Una scelta di pace

 

Poiché la via della pace passa in definitiva attraverso l’amore
e tende a creare la civiltà dell’amore,
 la Chiesa fissa lo sguardo in Colui che è l’amore del Padre e del Figlio e,
 nonostante le crescenti minacce non cessa d’aver  fiducia…
La fiducia si fonda su Colui che essendo lo Spirito-amore e anche lo Spirito della pace

GIOVANNI PAOLO II  ( “Dominum et vivificantem”, n.67)

 

Giovanni Paolo II, parlando al Corpo diplomatico nel 1991, affermava: “Esigenze di umanità ci chiedono di andare risolutamente verso l’assoluta proscrizione della guerra e di coltivare la pace come bene supremo.”
L’urgenza, sottolineata dal Pontefice, di un progetto ove l’uomo è chiamato a custodire l’uomo nella fatica di colui che in ogni momento, in ogni luogo, in ogni situazione progetta la pace, ricercandola tenacemente quale bene supremo, chiede che   a questa ceda e si arrenda ogni altra esigenza.
Chiaramente la pace di cui parliamo si dirige e trova il suo compimento nella testimonianza generosa della carità che sola è capace di donarla all’umanità in modo autentico e duraturo.
La stessa giustizia, su cui si fonda la vera pace, deve trovare il suo compimento nella carità.
Nel suo messaggio per la giornata mondiale della pace di questo anno, il papa sottolinea che troppo spesso la giustizia non riesce a liberarsi dal rancore, dall’odio e perfino dalla crudeltà. E conclude dicendo che, da sola, la giustizia non basta. Può anzi arrivare a negare se stessa, se non si apre a quella forza più profonda che è l’amore, che è il perdono.
Ripensando al secolo XX sentiamo tutta la tragica verità delle parole del papa, quasi monito e invito a operare il necessario discernimento così da non confondere la faticosa speranza, che è laborioso e personale progetto per la pace, con l’illusione della pace.
Alla luce di quelle esperienze, possiamo facilmente intuire che la pace non è a portata di uomo ma è dono che scende dall’alto.
A ciascuno di noi la formidabile, non sostituibile e personale  fatica di lavorare senza sosta per riceverlo e  custodirlo.
Per il cristiano“la pace non è la semplice assenza di guerra, né si riduce al solo stabilire l’equilibrio delle forze avversarie, né nasce da una dominazione dispotica, ma viene esattamente e propriamente definito ‘effetto della giustizia’ (Is 32,17). È il frutto dell’ordine immesso nella società umana dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta.
(Gaudium et Spes  n.78)
Quel secolo, infatti, mentre ricercava affannosamente, battendo vie diverse, la realizzazione di una sua giustizia, sperimentava e diveniva testimone, come nessun altro secolo, proprio su quelle stesse vie, degli orrori della guerra e di ogni altra atrocità.
Si racconta che in un mercato di Gerusalemme ove, tra molte cose eccellenti, si diceva essere in  vendita anche la pace, corsero gli uni e gli altri per comprarla, ma quel venditore aveva solo semi di pace da affidare alla terra e al lavoro dell’uomo, a una stagione clemente e a una fiduciosa attesa.
Del resto “la pace non è stata mai raggiunta per sempre, ma è continuamente da costruire. Poiché inoltre la volontà umana è labile e ferita dal peccato, la conquista della pace esige il costante dominio delle passioni di ciascuno e la vigilanza della legittima autorità ”. (GS n. 78)
Questa, crediamo, sia la via della pace, frutto della volontà positiva di una vita fraterna, giusta e pacifica, di un quotidiano discernimento e servizio, alcune volte oneroso e ingrato, ma che trova nell’amore all’uomo, specialmente agli ultimi per condizione economica, culturale, sociale, educativa, significato e salario in un futuro non sempre prossimo.
Sulla terra la pace non si può ottenere se non è messo al sicuro il bene delle persone e gli uomini con fiducia non si scambiano spontaneamente le ricchezze del loro animo e del loro ingegno. La ferma volontà di rispettare gli altri uomini e gli altri popoli e la loro dignità e l’assidua applicazione della fratellanza sono assolutamente necessarie per costruire la pace. Cosicché la pace è frutto anche dell’amore, il quale va oltre quanto la giustizia può assicurare” (GS n.78) .
Tutto questo è ben lontano dal pretendere la pace, dal definirsi pacifici senza nulla investire, senza nulla donare, senza quotidianamente faticare nel radicare la pace su quei fondamenti insostituibili, quali la giustizia, la verità, la carità e la libertà , nell’illusione che la pace sia esterna all’uomo, frutto del suo operare astuto, del suo discorrere virtuoso, e non piuttosto la volontà di chi lotta per trasformare se stesso fin nella sua più profonda intimità, mettendo prima di tutto in fuga ogni sorta di egoismo e di cattive intenzioni che albergano in ogni uomo, spesso nascoste sotto diverse maschere, dietro mille alibi che la storia continuamente ripropone, camuffandole.
Già Ezechiele denunciava: “I profeti dalle false visioni ingannano il mio popolo dicendo: Pace! E la pace non c’è; mentre egli costruisce un muro, ecco essi lo intonacano di mota" (3,10).
Un rimprovero, quello di Ezechiele, ai falsi profeti a motivo del loro falso ottimismo. Mentre si ripara Gerusalemme, città della pace, lavorando realmente a restaurare mura fatiscenti e pericolanti - ci pare di dover leggere nelle parole del Profeta - alcuni si accontentano di intonacarle.
Tentazione antica e sempre nuova. Specialmente se si considera Gerusalemme città simbolo, che sottintende alla pacifica convivenza degli uomini (per i cristiani è addirittura annuncio della Gerusalemme del cielo, la città eterna) e perciò costruita da pietre vive che siamo noi, pietre insostituibili per restaurare e rinnovare quelle mura fatiscenti, cadenti, vecchie  segno di ciò che nella realtà, nella  storia è l’uomo, ogni uomo, e al tempo stesso l’umanità tutta, distrutta e demolita dall’odio, dalla gelosia, dall’orgoglio, dalla superbia, dalla menzogna  che generano solo violenza e guerra.
Violenza e guerra, ogni giorno, straripando, ci vengono raccontate dai mezzi di informazione e comunicazione, fino a travolgerci. Ci tocca dunque difenderci col banalizzarle, abituando mente e cuore a quelle immagini fin quasi ad estraniarsi, invece di farci attenti e responsabili per coniugare  una riposta di pace.
Come non potevano, alla fine, non trovare una qualche risonanza là dove il Teatro dello Spirito si fa scenario di ciò che nell’uomo dice desiderio di salvezza, amore per l’umanità, nostalgia dell’Eterno e quant’altro è bello, vero, giusto, pacifico, vitale, santo?
Spesso la fatica del vivere stanca in tale misura da farci  dire e ridire di essere vecchi, invecchiati. Forse è il mondo e la storia che stanno diventando vecchi come non mai, fatiscenti. Forse, allora, non siamo stanchi perché vecchi ma perché costretti a muoversi in una dimora vecchia, disillusa, non più capace di far posto alla vita, di custodire la vita, di difendere la vita, luogo sclerotizzato nella sua capacità di amare, indurito, non accogliente per l’uomo, non più a sua misura, dove grande è il disagio di vivere e di  viverci, disperato perché non crede più alla vita ma piuttosto alla morte, ripiegato su se stesso, nostalgico di un ieri, di una giovinezza che in realtà non ha mai vissuto perché non ha mai sperato la vittoria definitiva della Vita.
 Il cristiano, uomo che crede nella vittoria della Vita,  deve ricercare con ogni altro uomo di buona volontà la pace terrena che nasce dall’amore all’uomo in quanto  nostro prossimo sempre. Prima di tutto con un dialogo ispirato dal solo amore della verità, non escludendo nessuno: “né coloro che coltivano gli altissimi valori dell’animo umano ma non ne riconoscono ancora l’Autore, né quelli che si oppongono alla Chiesa e in forme diverse la perseguitano. Poiché Dio Padre è principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. Perciò, chiamati a questa stessa vocazione umana e divina, senza violenza, senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme per costruire un mondo nella vera pace” (GS n.92) .
È necessario, per questo, che l’uomo si riscopra bisognoso di quell’etica che sola è capace di costruire un universo di significati, di valori, di ideali nei quali può abitare la condizione umana.
Ci pare illuminante ricordare che la radice greca della parola etica suggerisce l’immagine di dimora.
J.L.L. Arangueren scrive che l’ethos greco nel suo primo e più antico uso “significava residenza , dimora, luogo in cui si abita. Originariamente si usava soprattutto in poesia con riferimento ad animali, alludendo ai luoghi dove si riproducono e vivono, e a quelli dove si nutrono e si rifugiano. Più tardi si è applicato ai popoli e agli uomini col significato di paese di origine.”
Il pensiero moderno, soprattutto la riflessione filosofica di M. Heidegger, ha dato importanza al significato di ethos come “modo umano di risiedere e abitare” .
La LVIII festa del teatro di San Miniato ha voluto dire la sua ansia  e il desiderio di pace chiamando il suo pubblico a riflettere, dandone occasione e modo, con il presentare Il Dilemma del Prigioniero di David Edgar, una delle voci contemporanee più importanti del teatro politico britannico.
In una delle prime battute dell’opera edgariana si legge : “Mentre dovendo decidere tra pace e giustizia, forse per alcuni la pace può aspettare”.
Crediamo che questo sia il grande dilemma, non solo della vita dei popoli, ma anche della nostra personale esistenza. Recalcitranti a cedere alla pace, invocando non sempre autentiche pretese di giustizia, ci attardiamo a cercare altrove la pace, vagando senza meta, forse per ingannare noi e gli altri, per dirci e per dire: “L’abbiamo cercata ma non l’abbiamo trovata”. Sicuramente, per rimandare la fatica, a cui è chiamato ogni uomo, di farsi costruttore di pace e, per noi cristiani, la fatica di convertirsi a Colui che è il Principe della Pace.
Fatica che si realizza nel convivere e abitare insieme. La novità cristiana non consiste nel credere che Dio esiste, ma che “Dio è amore” (1 Giovanni 4, 8.16) e l’amore, in quanto tale, non può non effondersi: “Amor diffusivus sui” (Tommaso d’Aquino) .
Già  dai  primi  secoli del cristianesimo veniva affermato: “Dio è uno ma non è solo”( Ilario di Poitiers).
Il cristiano troverà, allora,  la sua piena vocazione nell’essere uomo di comunione, nel vincere la propria solitudine nel dono di sé, quasi una spoliazione. Un donarsi che è possibile solo se l’uomo ha ritrovato se stesso, se si possiede perché fatto partecipe di quella signoria che è regnare con Cristo, il Cristo crocifisso e risorto. Diversamente non sarebbe un donarsi, ma un buttarsi, senza vedere dove e come, fino a travolgere l’altro nell’ennesimo conflitto perché urtato, per poi precipitare e perdersi in un caos che è ammucchiata votata alla morte.
Se è vero, infatti, che l’unità non fondata sulla diversità è tirannia, è altrettanto vero che la diversità non fondata sull’unità è caos.
La pace del mondo, afferma la Sollicitudo rei socialis, è inconcepibile se non si giunge a riconoscere l’interdipendenza esistente fra gli uomini. Ora “quando l’interdipendenza viene… riconosciuta, la correlativa risposta …è la solidarietà ” .
Non per nulla si legge nella Populorum progressio che il nuovo nome della pace è lo sviluppo, inteso come “promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” . E si aggiunge: “l’uomo non è veramente tale che nella misura in cui, padrone delle proprie azioni e giudice del loro valore, diventa egli stesso autore del proprio progresso” .
La pace, dunque, è anzitutto un progetto personale, acquisizione di uno stile di vita fatto di gratuità, dell’abbondono dell’idea che la forza domini ogni cosa, di convinzione che solo nella comprensione e nel dialogo l’altro si apre e ci arricchisce.
Un dialogo, che è preghiera,  prima di tutto con Colui che è la “nostra pace” (Efesini, 2,14), per essere capaci di un dialogo di pace con ogni uomo.
All’uomo faustiano che proclamava “in principio era l’azione” e che dopo aver sfruttato in modo sconsiderato la natura si rivolge allo sfruttamento dei propri simili , il cristiano riproporrà la prospettiva evangelica “in principio era il verbo”  (Giovanni 1,1) che è la nostra pace.
Il teatro di San Miniato dedica la sua festa annuale al tema della pace proponendo l’opera edgardiana .
È questa una scelta rischiosa?
Può darsi!
È sicuramente gesto di speranza fare di questo spettacolo un’ occasione per chiamare il pubblico come a sedersi a un tavolo e interrogarsi sulla pace, per riscoprirla nella sua verità allorchè sembra bandita e lontana come non mai, un gesto di speranza che getta un “seme di pace” nei solchi delle travagliate vicende dei nostri giorni.


 Carlo Ciattini
 Consigliere Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato




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