E il teatro scoprì Chesterton
L'appuntamento estivo con la Festa del Teatro, promossa dall'Istituto del dramma popolare, e giunta ormai quasi alle soglie del mezzo secolo di vita, ha significato quest'anno la scoperta di Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) in quanto scrittore per le scene. L'inventore della popolare figura di Padre Brown (resa familiare a molti, in Italia, tempo addietro, da una fortunata serie televisiva con Renato Rascel), l'autore di romanzi di giusta fama come Manalive, L'uomo che fu Giovedì, L'Osteria volante, e altri, compose, dunque, anche testi destinati alla ribalta, fra i quali questo Magic, datato 1913, scovato e tradotto, adesso, da un giovane studioso, Saverio Simonelli; e allestito, dinanzi a un pubblico sempre folto, sulla Piazza del Duomo di San Miniato, da Mario Scaccia, affiancato dal veterano Corrado Olmi e attorniato da cinque elementi di fresca estrazione.
Sono sette, infatti, i personaggi coinvolti in una vicenda che intreccia sacro e profano, fede e scetticismo, trucchi e sortilegi, e che si conclude, come la più classica delle favole, con il trionfo dell'amore. Abbiamo qui, allora, un Duca simpaticamente stonato, i suoi due nipoti, Patricia (una creatura ingenua e trasognata, incline al fiabesco) e Morris (che, viceversa, reduce dagli Stati Uniti, ha assorbito in modo totale e arrogante lo spirito pratico americano), un Pastore protestante dalla religiosità austera e arida, un Dottore razionalista a oltranza, col complemento dell'ossequiente segretario-factotum del Duca; e infine, presenza-chiave, un Prestigiatore-illusionista, che si dimostrerà capace di compiere almeno un vero prodigio.
La conversione ufficiale di Chesterton alla Chiesa cattolica sarebbe avvenuta solo nel 1922. Ma, già in Magic, la doppia polemica verso i limiti della logica scientifica e della morale puritana svela l'idea d'un Cristianesimo insieme lieto e pensoso, tale da conciliare la realtà e il soprannaturale. Ciò posto, questa «commedia fantastica» (pur definita «bellissima» da un'autorità del calibro di Emilio Cecchì) non sembra a noi si collochi all'altezza delle opere narrative coeve (qualche titolo ne abbiamo citato all'inizio) di un protagonista della letteratura inglese del Novecento.
Del resto, non pochi spunti occasionali che la storia implica, legati al luogo e all'epoca, hanno perso inevitabilmente sapore; né, ad esempio, l'ambigua, fuggevole citazione del nome di Shaw può dare oggi il minimo conto del rapporto scontroso che a lungo s'instaurò tra Gbs e Gkc. Battuta messa, oltre tutto, sulla bocca del Duca, individuo assai stravagante (ma dotato poi d'una certa attualità, con quella sua smania di conciliare gli opposti, finanziando, poniamo, sia i vegetariani sia i loro accaniti avversari). A vestirne i panni, a dargli voce e gesto, con ironica forbitezza, è lo stesso Mario Scaccia, che firma lo spettacolo in qualità di regista (coadiuvato dallo scenografo-costumista Mario Padovan e da Andrea Travaglia, curatore delle luci, che nel caso hanno una particolare funzione). Valoroso il contributo degli interpreti in età verde: Walter Da Pozzo, Chiara Sasso, Marco Carbonaro, Raffaele Buranelli, Gabriele Tuccimei, e puntuale l'apporto di Corrado Olmi. Ma, insomma, la scelta di Magic non è parsa in grado di costituire un «evento» irripetibile, e men che meno di aggiungere un pizzico di effettiva novità ai cartelloni teatrali italiani presenti e futuri.
AGGEO SAVIOLI, L'Unità 27 luglio 1995
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