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La recensione di G.A. Cibotto
 

La recensione

L' eterno conflitto

Una delle poche manifestazioni che tengono felicemente il passo, senza cedere alla stanchezza che pare di rigore, dopo una prima fiammata d'entusiasmo, nel settore della prosa, è la festa del teatro promossa dall'«Istituto del dramma popolare» di San Miniato. Ormai giunta alla sua ventottesima edizione, in un succedersi di proposte che, salvo alcune volte in cui ha giocato un ruolo determinante l'imprevedibile folletto della sorte, hanno sempre incontrato il non facile consenso degli esperti e la calda approvazione del pubblico. Eppure con la scarsità di voci sensibili al richiamo dei valori spirituali, non deve essere stata impresa agevole reperire ogni anno dei copioni estranei alla lusinga edonistica che ha contagiato il nostro tempo, e a registrare la vibrazione di certe inquietudini che salgono dal profondo dell'uomo, cioè dalla zona della coscienza.
Fortunatamente a San Miniato il «quasi-miracolo» è accaduto sul filo di una continuità che non ha mai subito una battuta d'arresto, come dimostra il lavoro di Robert Bolt intitolato Un uomo per tutte le stagioni, andato in scena davanti ad una siepe di appassionati sulla grande piazza del Duomo che il gioco delle ombre e delle luci rende a notte una cornice ideale per analizzare i problemi che hanno sempre travagliato l'accidentato cammino della storia. A cominciare dall'eterno scontro tra le ragioni di Cesare e quello di Dio che in sede evangelica trovano eco nella famosa sentenza di Gesù, d'una lapidaria essenzialità.
Anche il dramma di Bolt si impernia sull'eterno conflitto tra potere religioso e potere civile, rievocando la vicenda di Tommaso Moro, rigido uomo di legge e solido umanista (al punto che molti esegeti lo ritengono la figura più esemplare del rinascimento inglese, oltre che l'autore di un saggio paradossalmente lievitante come L'Utopia, d'una attualità sconcertante) divenuto Lord Cancelliere di Enrico VIII, un sovrano di indubbie capacità, nonostante le riserve formulate dagli storici, che però nella sua dimensione operativa veniva travolto dall'urgere della passione così violenta nelle sue manifestazioni più acute, da indurlo a scelte di una pericolosità molto prossima allo sbaraglio. Come è accaduto giusto in occasione della sentenza emanata contro il suo più diretto e affezionato collaboratore, vale a dire l'uomo divenuto santo, in nome della ragion di stato più che d'una vita di rinuncia, decapitato nel 1535 con l'ausilio di una falsa testimonianza per non aver sottoscritto gli «Atti di supremazia e di successione», che in sostanza rinnegavano l'autorità del Pontefice in materia di sacramenti, affermando l'indipendenza della chiesa anglosassone da quella romana.
Dietro la mossa di Enrico si nascondeva insieme ad altre cose il desiderio di ripudiare la prima moglie per condurre all'altare Anna Bolena, contro la quale nessuno dei vari personaggi che stavano accanto al focoso sovrano, convinti dell'arbitrarietà del gesto, aveva avuto il coraggio di assumere posizione. L'unico rimasto a difendere la verità, lottando contro pressioni, minacce, ricatti, che con il trascorrere dei giorni avevano implicato un addio ai dolci agi dei quali amava circondarsi, e perfino agli affetti domestici che avevano rappresentato una solida barriera protettiva, era stato Tommaso Moro. Senonchè la sua rinuncia al collare che implicava il piacere del fasto e l'esercizio dell'autorità, ed il prudente ritiro a vita privata, non erano valsi a riscattare l'evidenza di un silenzio più amaro per Enrico d'una aperta sconfessione, per cui ad eliminare dalla scena uno scomodo testimone dopo qualche tempo intervenne la scure del carnefice.
Ed è proprio sul tema del contrasto tra libertà individuale e ragion di stato, che ai nostri giorni ha alimentato pagine d'una tensione drammatica, anzi tragica, stupende, che ha insistito Robert Bolt, affascinato dal caso psicologico e umano di Tommaso Moro, modello di impianto classicamente limpido dell'obiettore di coscienza. Cioè dell'uomo che in una fase critica della storia ha saputo anteporre i diritti della coscienza, ligia alla superiorità dei credo religioso, ai calcoli dell'ambizione e dell'istinto. Scritto con una scioltezza di dialogo ed una vivacità abbastanza insolita, il dramma che si avvale d'una vena d'humour squisitamente inglese, dopo una partenza affaticata, prende consistenza e disegna la parabola del grande statista inglese non dimenticando di trascinare dentro il meccanismo l'uomo d'ogni giorno, in un contrappunto che ha scene d'attualistica efficacia.
Anche per la finezza della linea registica di Josè Quaglio, che nell'inscenare il testo di Bolt, non ignaro nella sua struttura compositiva di certi avvenimenti brechtiani, ha accentuato le componenti spiritualistiche lasciando in ombra quelle storiche. Nello stesso tempo ha imposto al protagonista Aroldo Tieri, che ha avuto in Giuliana Lojodice e Carlo Hintermann dei validi collaboratori, di eliminare ogni cadenza oratoria, per cui ne è venuto fuori uno spettacolo che, pur con i suoi limiti, non manca d'una sua nobiltà e suggestione. Superbo aggiungere che gli applausi sono stati nutriti e cordiali.

G. A. CIBOTTO, Il Giornale d'Italia, Roma 30 Luglio 1974




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