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La recensione di Gian Filippo Belardo
 

«Ramon il mercedario» a San Miniato
Nella marea « montante » di tanti spettacoli estivi la « Festa del teatro » dell'Istituto del Dramma Popolare è da tempo un approdo sicuro. Ove tutto (o quasi) è improvvisazione, pressapochismo, ilare stupidità di bassa lega, l'annuale appuntamento sanminiatese, giunto quest'anno alla trentacinquesima edizione, costituisce sempre, comunque, un incontro costruttivo, mai casuale. E' questa una provvidenziale eccezione nell'annosa regola di provincialismo di buona parte del teatro d'oggi; barboso e togato nella stagione invernale, frivolo e sciocco al primo calar dell'estate.
C'è da aggiungere anche che mentre il « teatro ufficiale », sovvenzionato a centinaia di milioni, con la clausola (che si potrebbe definire esclusiva) di privilegiare gli autori italiani, puntualmente disattende l'impegno, la « Festa del teatro » ha preso ormai, di fatto, da alcuni anni, la « difesa d'ufficio » del drammaturgo italiano. Pomilio, Guardamagna, Enriquez, Luzi, Fabbri, Santucci. Nelle ultime sette edizioni, (se si eccettua il « Barabba » di De Ghelderode, nel 1976) la « Festa » ha rappresentato l'unica « vetrina stabile » per la drammaturgia nostrana. Autori prestigiosi, e « firme » meno note; spettacoli riusciti, altri meno: ma, l'eccezionale non è di tutti i giorni. Importante è non deflettere da questa linea che ha già dato risultati importanti.
Con « Ramòn il Mercedario » di Luigi Santucci ha inizio ora il periodo del dopo-Fabbri. E Diego Fabbri, nel suo « Al Dio ignoto », che ne esprime il testamento spirituale ed artistico, aveva contrapposto ai mille smarrimenti dell'uomo d'oggi la risposta, la consolante risposta-certezza, della Resurrezione. Santucci nel dramma che sintetizza i « momenti forti » dell'esperienza spirituale di San Raimondo Nonnato (Mercedario, 1204-1240) pone l'accento sulla Liberazione, e l'accostamento dei due temi non è davvero casuale.
Ha un'origine letteraria questo « Ramòn ». Tratto da una novella (« II mercedario ») ha poi avuto una stesura teatrale, dietro sollecitazione del direttore artistico dell'Istituto del Dramma Popolare, don Marco Bongioanni, che nelle pagine del racconto di Santucci aveva intravisto una « traducibilità » spettacolare.
Della novella il dramma allestito a San Miniato conserva la sinteticità e la levità di scrittura, ove la parola si fa allusiva, e il lirismo ambientale. Il dramma più che negli accadimenti esterni è nell'intima tensione di Ramòn, in quel suo incessante prodigarsi per la liberazione e la salvezza degli altri, fino al completo sacrificio di sé. Il testo procede nella descrizione, attraverso scene « tagliate » con rapidità, dei viaggi che Ramòn compie fra la Spagna e l'Algeria, nelle stive di una galea, incatenato al remo, ogni volta barattando la propria forza in cambio della libertà altrui, fino all'incontro finale con il Cristo-Viandante.
Nel dramma Santucci ha evitato l'agiografia e il devozionismo, dando vita a un personaggio umanissimo e ricco di vibrazioni intcriori, così come tutti « buoni » sono in fondo, o lo diventeranno, gli altri personaggi, ad iniziare dal feroce barbaresco. (« O gran bontà dei cavalieri antiqui »). La bontà, non è una scoperta, è infatti altrettanto « contagiosa » del male.
Di fronte a un testo che procede per sintesi, non senza alcune schematizzazioni il regista Lamberto Puggelli è caduto nell'equivoco del manierismo (anche se nascosto sotto l'etichetta del naif), limitandosi ad una lettura piuttosto esteriore, ed a una realizzazione altrettanto approssimativa, e affrettata, ad iniziare dalla distribuzione del cast. Anche la scenografia, (firmata da Luisa Spinatelli) con quei fondali dipinti e quella contrapposizione della città cristiana e della città musulmana, buona nell'ideazione,  risultava  scarsamente  rifinita.
Buona invece l'interpretazione: specie di Massimo Foschi (Ramòn) che ha dato un risalto tutto intcriore al personaggio, mentre Antonio Salines, (San Pietro Nolasco) ha trovato accenti di misurata persuasione, e Carola Stagnaro (la fidanzata di Ramòn) si è espressa con una sobrietà davvero notevole.
Gli altri attori hanno tutti — chi più chi meno — risentito dell'impostazione registica « colorata », puntando sul facile effetto.
Appropriate le musiche, eseguite con strumenti dell'epoca, di Fabio Borgazzi.
Gian Filippo Belardo L'Osservatore Romano, Roma, 24 Luglio 1981




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