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La recensione di Alberto Perrini
 

La tragedia del giustiziere
L'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, da diversi anni, interamente riorganizzato sotto la presidenza del senatore Giuseppe Togni, ha allestito quest'anno la sua ventiseiesima rappresentazione affermando ancora una volta la serietà, l'impegno e l'originalità del suo indirizzo. Ventisei spettacoli di prosa quasi tutti d'alto livello artistico, costituiscono un imponente repertorio coerente quanto coraggioso composto di opere drammatiche contemporanee di ispirazione spirituale e per di più in «prima» assoluta per l'Italia. La rinuncia alla scorciatoia dei «classici» costituisce già un indirizzo di enorme importanza culturale, perché la cultura viva è fatta soprattutto del mordente dell'attualità. Quest'anno è stata rappresentata all'aperto, sulla piazza del Duomo di San Miniato (Pisa), la «tragedia» Savonarola del francese Michel Suffran. L'autore è stato colpito dalla tragica vicenda del Savonarola che morì sul rogo come eretico. Ribelle al corrotto potere temporale di Alessandro VI, il Savonarola, nella sua travolgente crociata, fu nemico di tutti, anche di Lorenzo il Magnifico che verso il «turbolento e screanzato» frate ferrarese ebbe un atteggiamento quanto mai tollerante. Ma il temporalesco Savonarola, nel suo messianico furore, corse, come Giovanna d'Arco, verso la sua «tragedia» terrena. Ancorato al passato per l'ardore profondo della sua fede, considerò i fermenti destati dall'Umanesimo come armi del demonio.
Michel Suffran, nonostante questo personaggio storico fosse già stato trattato in altre opere drammatiche (basti pensare, in Italia, al Savonarola di Rino Alessi, allestito da Jacques Copeau in Piazza della Signoria a Firenze, e a quello di Silvio D'Amico, e, il più recente, di Mario Prosperi; e in Francia a La terre est ronde di Armand Salacrou), ne ha tentato, e con successo, una «ricostruzione» poetica ove il terribile frate non è che il personaggio «motore» della vicenda mentre il «protagonista», quello che più ci interessa, è proprio il suo antagonista, Francesco Romolino, il legato pontificio che assiste all'ultima fase del processo. Una battuta dell'inquieto e pensoso Romolino è illuminante: «In ogni uomo che noi giudichiamo, chi ci dice che non sia il Cristo che noi coroniamo di spine, flagelliamo e crocifiggiamo ancora una volta?».
Il dubbio e il tormento di Romolino ci commuovono assai più del calvario patito dallo stesso Savonarola divenuto capro espiatorio delle passioni e degli interessi altrui, abbandonato dal padre, tradito dal popolo e dai suoi seguaci, attanagliato dalla paura, dalie sofferenze .fisiche e dalla tentazione della disperazione. La tragedia Sia i toni più alti proprio nell'inquietudine spirituale e morale che la grande vittima fa nascere nel suo giustiziere.
L'opera di Suffran è condotta con rigore quasi classico. Propone vicende e personaggi emblematici della condizione umana di sempre. Questo autore deriva il suo stile da Greene, Claudel, Montherlant e, soprattutto, dal grande Bernanos. Animato da una sincerità lirica e da un particolare gusto letterario insieme, la sua prosa teatrale è ricca di immagini, di metafore (la metafora è la chiave maestra della poesia) e di eleganza. Nelle undici scene del lavoro si accavallano intrighi, violenze, odii, tradimenti, dubbi e paure; danno triste spettacolo di sé i Giudici (che rappresentano i vari poteri: politico, economico, militare, religioso) e la cieca passionalità della plebe — delusa nella sua fame di prodigi — che passa dall'amore fanatico all'odio più feroce. L'autore ha saputo sapientemente mescolare il bene e il male in conformità alla serena visione evangelica del grano e dalla zizzania mischiati nello stesso solco. La verità è un atto di fede, nient'altro.
La regia del Savonarola è stata affidata a Josè Quaglio che ha regolato il gioco degli interpreti con molta abilità, spicco e misura, riuscendo ad ovviare le zone statiche dell'opera con la dinamica di un ritmo interiore; ha dato cioè il massimo risalto alla «parola» come struttura portante del movimento drammatico. Ed è quanto di meglio si possa fare in teatro che, nonostante gli orpèlli visivi (il corpo degli attori e il colore dei costumi, il movimento, la composizione, la scena e la luce), resta la sola materia che possa profondamente coinvolgere il pubblico nel «rito» che, in lavori del genere, assume una particolare importanza.
Notevole anche la scenografia di Misha Scandella che non s'è limitato a disegnare il bozzetto ma ha congegnato un funzionale meccanismo di cambiamenti: grandi fianchi rovesciabili che presentavano da un lato pareti di legno scolpito e dall'altro i nudi intonaci delle celle. Un «disegno» dinamico, il suo, perfettamente congeniale alla regia. Molto bravi gli interpreti. L'autorevole Aroldo Tieri — l'indimenticabile protagonista de Il Potere e la Gloria di Graham Greene che trionfò proprio a San Miniato nel 1955 — s'è calato nel saio del Savonarola con una passionalità, una forza e un'adesione al personaggio da scuotere il pubblico e far dimenticare che il suo pur tormentato uso per nulla assomiglia a quello del frate ferrarese. Composta, raffinata e inquietante l'interpretazione di Francesco Remolino da parte di Tonino Pierfederici che ci ha dato, nella sua maturità di attore, forse la più bella interpretazione della sua carriera (dopo quella, giovanile, ne I parenti terribili di Cocteau per la regia di Visconti). Ma anche gli atri attori sono stati all'altezza della situazione, alcuni dei quali bravissimi, vere rivelazioni (ecco come una felice regia può creare ottimi interpreti ): Libero Sansavini, Guido Ciniglia, Marcello Bertini, Riccardo Perucchetti, Maurizio Romoli, Claudio Trionfi, Stefano Braschi, Pino Sansotta, Toni Trono, Pietro Biondi. Lo spettacolo è terminato con i bagliori dei roghi che hanno illuminato la facciata del Duomo di San Miniato. Uno spettacolo assai degno.
Alberto Perrini Lo Specchio, Roma, 20 Agosto 1972




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