Questo sito utilizza cookie tecnici, di profilazione propri e di terze parti. Se continui la navigazione, se accedi ad un qualunque elemento di questa pagina (tramite click o scroll), se chiudi questo banner acconsenti all'uso dei cookie.
Chiudi ed Accetta Voglio saperne di più
 

ARCHIVIO DI TUTTE LE EDIZIONI:

cerca all'interno del sito:

SEGUICI SU:


facebook youtube email



Ministero

Regione Toscana

ARCHIVIO
 
Toscana Oggi - La recensione di Andrea Fagioli
 

Dal «dominio del male» il mistero della Grazia
È il 1927: sono gli anni della persecuzione dei cattolici nel Messico rivoluzionario. L'unico prete rimasto, «schiacciato dalla paura, alcolizzato, debole nella carne, trascina con smarrimento il peso di una vita indegna dell'abito che porta e dì un ministero che richiede ben altra testimonianza. È il dramma di una creatura consapevole della propria miseria e, per di più, con l'angoscia di essere un escluso dalla salvezza».
Così don Giulio Villani, su queste colonne, tratteggiava il protagonista del romanzo Il potere e la gloria di Graham Greene in occasione della morte dello scrittore inglese avvenuta nell'aprile scorso. Ma subito dopo aggiungeva che nell'opera di Greene «il dominio del male offre la possibilità dì far balenare un mistero di Grazia che raggiunge gli uomini nei momenti più oscuri e decisivi».
L'inquietudine spirituale che conduce a scavare dentro al cuore dell'uomo e ad interrogarsi sul suo destino, la lotta cosmica tra bene e male che trascende la sfera umana del giusto e dell'ingiusto, sono elementi caratteristici dell'opera di Graham Greene e trovano il suo simbolo proprio nel prete indegno del Potere e la gloria la cui trasposizione teatrale, firmata da Denis Cannan e Pierre Bost con l'approvazione dell'autore, è andata in scena nei giorno scorsi (dal 19 al 24 luglio), nella traduzione di Luigi Squarzina, alla quarantacinquesima «Festa del Teatro» organizzata dall'Istituto del dramma popolare di San Miniato e quest'anno preceduta dal primo Convegno nazionale sul teatro dello spirito al quale hanno partecipato studiosi e critici teatrali.
La piazza del Duomo della cittadina toscana in provincia di Pisa ha fatto ancora una volta da suggestiva cornice al testo dello scrittore inglese già rappresentato nel 1955. Con questa scelta, l'Istituto del dramma popolare è venuto meno al suo statuto che prescrive la rappresentazione ogni anno di un lavoro che tratti argomenti legati alla spiritualità dell'uomo e che non sia mai stato rappresentato in Italia. Al tempo stesso, però, ha inaugurato un periodo di doverosa rivisitazione dell'opera di uno dei maggiori scrittori del nostro tempo.
Insomma, come ha detto il critico Ugo Ronfani presentando il testo, questa ripresa ha la «dignità dell'evento». «Trattandosi di un capolavoro della drammaturgia moderna - ha aggiunto don Luciano Marrucci, direttore dell'Istituto del dramma popolare -, ci siamo arrogati, una volta tanto, il diritto di replicare noi stessi». E così, Greene è «tornato» per la terza volta a San Miniato: in precedenza, oltre a Il potere e la gloria, è stato rappresentato anche Il capanno degli attrezzi nell'adattamento di Aldo Trionfo e Marco Bongioanni.
Rinchiuso in carcere insieme ad un gruppo di poveri contadini, ammassati come bestie, il prete di Greene dà sfogo a tutta la sua amarezza ammettendo il proprio fallimento: «... non sono un prete per voi... Non valgo più niente... Solo dieci pallottole, nel cortile lì fuori...». Ma il male che per antitesi richiama il bene, lo spingerà, nel finale del dramma, a rinunciare alla fuga pur di assistere un moribondo. Quel misero prete, osservava ancora don Villani, «in un risveglio inesplicabile, prende coscienza di quel potere divino che egli può gestire pur nel suo stato di peccato e lo mette a disposizione degli uomini, a prezzo della sua vita stessa».
Quello di Greene, che nonostante la conversione rifiutò sempre l'etichetta di «scrittore cattolico», è anche il messaggio di una Chiesa che non si arrende in forza dell'evento soprannaturale. Bello al proposito il dialogo finale tra il prete e il tenente, l'antagonista, il rivoluzionario, «l'arcangelo con la spada in mano», il marxista puro che però affonda nella corruzione di chi gli sta intorno. «Non ha poi troppa importanza - afferma il prete rivolto al tenente - che io personalmente sia un codardo, un alcolizzato... posso ugualmente introdurre Iddio nella bocca di un uomo, e dargli il perdono di Dio. Da questo punto di vista, non farebbe differenza se i preti della Chiesa fossero tutti fino all'ultimo corrotti come me».
Una Chiesa che non si arrende, si è detto, e che sopravvive a se stessa, all'indegnità dei propri ministri, ed ecco allora, nel finale vero e proprio del dramma, l'arrivo di un nuovo sacerdote che nell'anonimato, braccato dalla polizia, proseguirà il ministero divino in una «terra senza Dio». Giancarlo Sbragia, regista e interprete principale di questa seconda versione del Potere e la gloria, ha dichiarato che la vicenda del dramma è «resa ancora più forte dagli ultimi avvenimenti nell'Est dell'Europa» ed è per questo che non ha voluto dare «delle indicazioni storiche e ambientali troppo precise», cercando di «rendere tutto più astratto possibile». In realtà, questo parallelo non ci è parso molto evidente. La messinscena ci è sembrata piuttosto fedele allo spirito originario della trasposizione teatrale, ma non per questo ormai priva di effetto. Il testo conserva intatto quel senso di inquietudine spirituale caratteristico dello scrittore inglese, quell'attenzione particolare verso il peccatore, il più debole, inteso come colui che in ogni caso, ad esclusione del santo, è il più «competente in materia di cristianità».
Semmai, c'è da dire che il prete di Sbragia non sempre riesce a trasmettere in pieno il tormento interiore come ad esempio nel terzo quadro quando l'affannosa ricerca del vino bianco per celebrare la messa si risolve in una scena un po' macchiettistica, in una apparente concessione al pubblico di un teatro estivo all'aperto. Per il resto, la prova fornita dall'attore-regista è di indubbio livello così come quella del figlio Mattia nei panni dell'inflessibile tenente. Bravo anche Elio Veller nella parte del dentista e a tratti Giancarlo Cortesi in quella del meticcio. Un po' sopra le righe il cugino del governatore di Camillo Milli. Completano il cast una quindicina di altri interpreti. Bella la scena (un girevole tutto in legno) di Giovanni Polidori, unico «superstite» dell'edizione 1955.
ANDREA FAGIOLI, Toscana Oggi, 28 luglio 1991




© 2002-2021 fondazione istituto dramma popolare di san miniato

| home | FESTA DEL TEATRO 2023 | chi siamo | dove siamo | informazioni e biglietti | scrivici | partner | sala stampa | trasparenza | sostieni | informativa privacy | informativa cookie |

 

Fondazione Istituto Dramma Popolare San Miniato
Piazza della Repubblica, 13 - 56028 San Miniato PI
P.I 01610040501

Home