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La Repubblica - La recensione di Rodolfo Di Giammarco
 

Offrite del vino a quel prete santo e peccatore
Un prete roco, alcolizzato e con una figlia sulla coscienza, un sacerdote in randagia clandestinità per meglio frapporre resistenza alle persecuzioni anticlericali in atto, sullo stondo di un metaforico Messico anni Trenta, ovvero un qualsiasi paese in preda a caos militare. Lui, il religioso, pur nelle sue forti contraddizioni a base di adempienze e di slealtà, rappresenta (almeno virtualmente) la Gloria. Gli si oppone, dalla parte di un tirannico sistema poliziesco, e come emblema vicario del Potere, l'arma impugnata o ben custodita da un tenente inflessibile, prototipo dello sgherro (vagamente anglo-amerindo) su cui grava il compito di smascherare e catturare ogni prete ancora non fucilato o non 'convertito' al matrimonio; vale a dire laicizzato.
Il potere e la gloria si manifestano così, in tale dissidio o disputa di pregnanza umana e sociale, oltre che spirituale, fin da quando Graham Greene scrisse
l'omonimo romanzo nel 1940, dal quale John Ford ricavò poi un film molto discusso, e dalla quale Denis Cannan e Pierre Bost trassero un dramma teatrale già allestito a San Miniato nel '55, in una edizione che portava la firma di Luigi Squarzina, autore anche della versione italiana. Lo spettacolo, basato sulla stessa versione, ma con regia e ruolo protagonista di Giancarlo Sbragia, viene adesso riproposto, nella stessa sede, forse in occasione della recente scomparsa dell'autore, ma direi piuttosto per verificare quelle tematiche laceranti in tempi nostri, in un contesto dove la fede è ormai quasi altrettanto 'sommersa', e in seno a una teatralità dove si son confusi (o purtroppo si conoscono bene) i meccanismi attuali del potere e della gloria. La vicenda di quel sacerdote peccatore, alla perenne ricerca di vino da consacrare per la Messa ma anche di alcol per lenire il proprio calvario, è ancora intensa, talvolta irriducibile, e fa leva su un certo spessore conradiano. Al di là delle contrapposizioni fra questo ministro di Dio alla macchia e l'aguzzino in divisa che lo tormenta dandogli ovunque la caccia, vien subito spontaneo porre l'accento, come duplice colpo di scena, sul dibattito fronte a fronte (non è la prima volta) di Sbragia padre, nei panni del prete, e di Sbragia figlio, ovvero Mattia, che qui impersona il Tenente.
Bene, c'è in effetti una seria intriganza, nel rapporto fra i due: Sbragia sr. è bravo, bravissimo nel raffigurare l'orgoglio senza rispetto dei maturi incantatori di folle (da un pulpito o da una ribalta, non cambia), mentre Sbragia jr. è un tallonatore inesorabile, un irruento neo-ideologo della parola, seppure con barlumi inconfessati di solidarietà. Non dispiace affatto, ed è anzi di problematica sottile, il nesso fra un Bene e un Male senza precisi confini, fra un'esperienza di officiante e una disciplina d'urto d'un 'seminarista' ateo, il tutto nelle persone di padre e figlio, con la testimonianza involontaria di una famiglia d'arte.
Poi c'è l'allestimento, il lavoro d'insieme, e va intanto annotato come la scenografia di Giovanni Polidori, un 'grumo' d'ambienti a palizzata su un girevole, unico altro aspetto superstite dell'edizione del '55, regga disinvoltamente al tempo, illustrando una crisi di povera gente. Bello è sempre il sotterfugio dei colloqui nel gabinetto d'un dentista filo-irredentista (con vizi e debolezze), Elio Veller. Sano e verosimile è l'andito nudo dove il prete si riaccosta ai suoi familiari illegittimi, o dove si creano affollamenti rusticani, ai credenti o scettici (si rischia la pelle, a ospitare un sacerdote). Il 'cielo' è in una catapecchia, in una chiesa improvvisata, nel covo di un collaborazionista (Camillo Milli), nei recessi dove un meticcio (Giancarlo Cortesi) lo tradirà come Giuda, affidandolo al plotone d'esecuzione. I costumi erano di Alessandro Ciammarughi, le musiche di Luciano Francosci.
RODOLFO DI GIAMMARCO, La Repubblica, 28 luglio 1991




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