Recupero di umanità
Quando all'inizio della primavera del '47 quel gruppo di amici, formato dall'allora attore Gianni Lotti, dall'avvocato Giuseppe Gazzini, dal pittore Dilvo Lotti e dalla professoressa Laura Mori, pensò di rivitalizzare la vita culturale di San Miniato con l'istituzione di una Festa del Teatro, probabilmente non sperava che l'iniziativa avrebbe assunto quell'importanza che anche oggi essa ha.
A trentaquattro anni di distanza, infatti, sono ancora una volta convenuti un po' da tutta Italia nel piccolo centro della Val d'Arno prelati, uomini di cultura, giornalisti per partecipare all'incontro con questo momento teatrale « sui generis ».
Anzi, questa edizione 1980 sembra segnare un momento di rinascita dopo alcuni anni in cui, per vari motivi, si era un poco segnato il passo. L'Istituto del Dramma Popolare, che organizza la Festa, ha affidato la nuova direzione artistica a don Marco Bongioanni e quella organizzativa a Pier Giorgio Gili. I due torinesi, pur arrivando da lontano, hanno saputo egregiamente conservare tutt'intero lo spirito dell'incontro e al tempo stesso hanno portato nuovi fermenti che fanno presagire un rilancio di questa manifestazione che ha ormai acquistato risonanza nazionale.
Fulcro della Festa è stato quest'anno « Al Dio ignoto », novità teatrale di Diego Fabbri realizzato dalla Compagnia del Capranica.
La vicenda dello spettacolo narra di una prova « aperta » di una compagnia teatrale formata da attori che cercano nel loro lavoro qualcosa di più del semplice successo professionale. Sul palcoscenico ogni attore (ogni uomo) recita un pezzo del repertorio suo proprio. Attraverso quella pagina scenica — suggerita da Eliot, o Blok, o Shakespeare, o Dostoevskij o altri — egli cerca una sua genuinità difficile, forse irraggiungibile.
La mediocrità, la terrestrità, riaffermano l'uomo di continuo, lo fanno ricadere sempre su se stesso. Senonché viene sulla scena un certo Paolo, viaggiatore che arriva dall'Oriente con un messaggio non facile a recepirsi: la resurrezione. Un messaggio che « urta » l'uomo d'oggi. Ma ogni attore deve giocare su quel messaggio la propria realizzazione umana, se vuole conseguire il meglio di se stesso.
Tutte le proposte umane, culturali, sociali, politiche, scientifiche, tecniche che emergono dalle parole dei drammaturghi rappresentati contano poco o nulla, senza quel messaggio esplosivo, che rilancia l'uomo oltre i limiti della terrestrità e dell'umano ».
La decina di attori della compagnia, dunque, accettano di « confessarsi » in scena di fronte ad un giornalista.
Questi fa da contrappunto alle figure dei teatranti con la sua banalità, lo schermo, l'incredulità. Egli è il tipico rappresentante dell'« uomo vecchio » impregnato di ideologismi e scetticismo contrapposto all'« uomo nuovo » che sta prendendo lentamente forma sul palcoscenico.
Un testo ponderoso, questo di Fabbri, che poco concede alla distrazione. Le tre ore di rappresentazione vanno seguite attentamente: perdere una battuta può far fraintendere parecchio. Tre ore di profonda riflessione sulla condizione dell'uomo d'oggi « distratto » dalla sua vera essenza dalle lusinghe del successo e del denaro. E la scena iniziale, ripresa da Eliot, descrive con efficacia lo stato di abbandono e di disfacimento in cui si dibatte la società parolaia e ideologizzata dei nostri giorni.
L'unica maniera per riemergere da tale situazione disumana è, come recitano gli attori, « riscattarci riscoprendo il senso della parola » dove parola sta per « verbo ».
E gli interpreti hanno mostrato di essersi calati efficacemente nei personaggi tanto da far credere che essi stessi stiano vivendo di persona le inquietudini rappresentate sulla scena.
Mario Grieco Il Nostro Tempo, Torino, 3 Agosto 1980
|