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La recensione di Raul Radice
 

La recensione

 

Un autore nuovo per i palcoscenici italiani

La ventunesima Festa del teatro dell'Istituto del Dramma Popolare ha proposto all'attenzione degli ascoltatori un drammaturgo mai prima d'oggi accolto, non ostante la notorietà raggiunta, sui palcoscenici italiani: Antonio Buero Vallejo, scrittore la cui storia individuale riflette gran parte della vicenda che in anni relativamente recenti coinvolse un numero cospicuo di intellettuali spagnoli.
Nato a Guadalajara cinquant'anni or sono e sul principio attratto dalla pittura, coinvolto nella guerra civile durante la quale si manifestò antifranchista, alla fine della guerra Buero Vallejo fu processato e condannato a morte. La pena capitale venne successivamente commutata in una lunga detenzione, terminata nel 1946 con la concessione della libertà provvisoria. Da quella data ha inizio l'attività di Buero Vallejo drammaturgo, i cui esordi alla ribalta avvennero, tuttavia, soltanto nel 1949. È di quel tempo "Historta de una escalera" che ebbe esito clamoroso e, coronata dal premio Lope de Vega, fu assunta dal Teatro Espanol. E a questi stessi anni va ascritto l'inizio di una polemica i cui aspetti drammaturgici e politici si deducono da una dozzina di opere, l'ultima delle quali apparve nel 1963. A partire da questa seconda data la carriera teatrale di Buero Vallejo fu nuovamente ostacolata. Due suoi drammi inediti attendono ancora d'essere rappresentati.
"Il concerto di Sant'Ovidio", che appare nella agile e chiara traduzione di Maria Luisa Aguirre, è una parabola i cui eventi storici sono sottoposti a una dilatazione che è elemento essenziale della drammaturgia di Buero Vallejo. «Se un lavoro teatrale non suggerisce molto di più di ciò che dice esplicitamente, è morto. L'implicito non è un errore per difetto, ma una virtù per eccesso», sta scritto nel credo del drammaturgo. Così la parabola allestita a San Miniato, collocata nella Parigi alla vigilia della Rivoluzione, si accentra su un gruppo di suonatori ciechi ospiti di un istituto religioso e ceduti dalla madre priora a un impresario, Luigi Maria Valindin, il quale ha in animo di farne il principale numero di attrazione di un locale della Foire de Saint Ovide. Non tutti i ciechi (sono in numero di sei, e sembrano avere eletto a loro capo il volitivo David) sul principio si trovano d'accordo. Il sospetto legittimo che la proposta di Valindin implichi una offesa alla loro dignità si agita non soltanto nell'animo di David. Alla fine le speranze di un guadagno meno misero, di una vita più libera e di un nutrimento più abbondante, finiscono tuttavia con l'aver ragione di ogni dubbio. Ma la reazione di una parte di essi si riaccenderà, non appena Validin. accantonate le aspirazioni artistiche dei suonatori, dà a vedere di voler fare di essi niente più che un gruppo di pagliacci: sicuro fra l'altro di essere agevolato, per quanto riguarda i travestimenti, dalla cecità dei suoi scritturati. È chiaro che le aspirazioni artistiche dei suonatori, non avendo essi una preparazione adeguata, sono illusorie. Ma è altrettanto chiaro che la cecità non impedisce a nessuno di quegli sciagurati di intendere e sentire la menomazione alla quale Valindin quotidianamente li sottopone.
Due soprattutto vi si ribellano: l'anziano David e un suo giovane figlio ideale che perdette la vista in seguito al vaiolo contratto nella più squallida indigenza. E in ciò sono sorretti, circostanza che li renderà nemici, da Adriana, ex-cantatrice di strada, ora amante di Valindid, da lui associata nell'impresa della fiera. Una delle ossessioni dei ciechi è la donna (David è riuscito a inventarsene una per proprio conto: giovane, ricca, nobile e cieca), e anche da quell'ossessione Valindin ha tratto partito inducendo Adriana a valersi della propria femminilità per impedire che i ciechi abbandonino l'impresa. All'invito la donna ha aderito mal volentieri, senza tuttavia sapere che ciò la avrebbe condotta a solidarizzare con le sue vittime. Valindin non poteva fare calcolo più sbagliato. Attraverso quella via impensata, della quale potrà indirettamente valersi, David a un certo punto si farà giustiziere e dell'impresario e dell'uomo che idealmente non ha esitato a prostituire la propria donna. A David non importa di sapere che, scoperto il delitto, lo aspetta la forca.
"Il concerto di Sant'Ovidio" si chiude con un monologo dalle apparenze didascaliche affidato a un personaggio realmente esistito, Valentino Hauy, il quale era già apparso brevemente, per reagire con uno scoppio di indignazione, alla fine di uno dei buffoneschi concertini organizzati da Valindin. Hauy, che fu l'inventore di uno dei primi metodi di lettura per ciechi, narrando la sorte finale di ognuno dei ciechi di Sant'Ovidio profetizza l'emancipazione dei «non vedenti», ossia di quanti non vedono e al non vedere sono costretti da una condizione che non è, necessariamente, soltanto fisiologica.
Non occorreva tanto per intendere il significato vero di una parabola la cui allusività, sebbene espressa con castigatezza, è costante e alla cui evidenza, può darsi, hanno contribuito le amputazioni cui il testo, drammaturgicamente non imponente ma ricco di riferimenti storici, letterari, pittorici e musicali, è stato sottoposto. Con tutto ciò "Il concerto di Sant'Ovidio" conserva il suo carattere di parola prevalentemente contemplativa al di là della vivificazione che il regista Paolo Giuranna, allestendolo per il Teatro Stabile di Genova, ha impresso allo spettacolo. Il quale risulta vario e ben ritmato anche nei momenti in cui la scena ideata da Gianfranco Padovani rischia di rallentarne la speditezza.
Raramente le parabole riescono a svincolarsi dal peso, e soprattutto dalla monotonia della coralità. Per questo Giuranna (che è buon attore, come risulta anche dall'intensità attribuita al personaggio di Hauy da lui stesso assunto), a parte la partecipazione di Ivo Garrani, che è un ottimo Valindin, di Omero Antonutti che è un David vigoroso, e di Lucilia Morlacchi che mai come ora aveva dato a vedere di avere assorbito con tanto profitto la lezione della Morelli, ha giustamente preteso da tutti gli interpreti una recitazione rilevata e colorita. Lo hanno bene secondato, fra gli altri, Dina Braschi e Simona Caucia, il De Dellis, il Dalbuono, il Porta, il Bellofiore, il Margine e il Pischedda.
Molti applausi anche durante la rappresentazione, ritardata di un giorno a causa del maltempo. Buero Vallejo, che già aveva assistito all'anteprima, è stato salutato alla fine da una lunga ovazione.

RAUL RADICE Corriere della Sera, Milano, 27 Agosto 1967




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