Guerre di religione in un interno
Ebbe il Leone d'Oro a Venezia, fra contrasti e polemiche, Ordet, libera trascrizione cinematografica, per mano di Carl Theodor Dreyer, dell'opera teatrale di Kaj Munk (1908-1944), autore danese, e dunque connazionale del regista. Si era nel 1955. Un adattamento per lo schermo del testo, risalente alla primissima giovinezza di Kaj Munk, lo aveva realizzato, nella neutrale Svezia, un altro maestro del cinema scandinavo, Gustav Molander. Correva, allora, l'anno 1943. Nel 1944, Kaj Munk veniva assassinalo dai nazisti, invasori della sua patria, contro i quali aveva scagliato, a voce e per iscritto (dopo aver simpatizzato, prima della guerra, per Mussolini e per Hitler), la sua vibrante eloquenza di pastore e di teologo.
Non deve stupire che, nel pieno degli anni Cinquanta, in tempi di durissimi scontri politici, e quando si usava e abusava della credulità popolare per portare acqua al mulino della Dc, un film come quello di Dreyer facesse torcere il naso a più d'uno, qui da noi, e non solo nel campo della critica «di sinistra». Oggi, anche lo spettatore più «laico» può porsi con serenità e rispetto dinanzi a Ordet (ossia La Parola, Il Verbo), ascoltare (magari con qualche fatica) le dispute che vi si accendono, tra diverse fazioni della Chiesa luterana, assistere senza turbarsi al momento culminante della vicenda: il miracolo che restituisce alla vita una giovane donna morta, di parto, da alcuni giorni.
Per la verità, Mario Scaccia, regista e interprete principale, ha sfrondato il lavoro (tradotto da Annuska Palme Sanavio) quanto possibile, concentrandone i «quattro ponderosi atti» in due parti che, escluso l'intervallo, assommano a un paio d'ore complessive. Il conflitto religioso che, oppone Pietisti e Grundtvighiani, ossia gli assertori di una Fede chiusa, cupa, esclusiva, e i sostenitori di un Cristianesimo solare e liberatorio, viene ridotto a pochi scorci di confronto diretto: e tende in sostanza a incorporarsi nelle forme, più riconoscibili, d'una lotta tra famiglie e, se si vuole, tra classi. Poiché alla testa dei Pietisti è un modesto sarto, Peter, mentre il suo avversario, il vecchio Mikkel Borgen, è un ricco proprietario di terre e di bestiame (per inciso, rileviamo che aver ribattezzato, qui, Fondamentalisti i Grundtvinghiani, cioè i Grundtvig, può indurre in equivoco). E, certo, nei panni dell'autoritario patriarca Borgen, Scaccia convince assai più quando tratta di cose concrete, della conduzione domestica, dei destini dell'azienda familiare; che egli preferirebbe affidare del resto, nelle mani del terzogenito Anders (innamorato, e qui è il guaio, dell'unica figlia di Peter il sarto, Anna), anziché in quelle dello scettico primogenito Mikkel junior.
Il beniamino di casa, Johannes, il secondogenito, è purtroppo impazzito, dopo la tragica morte della fidanzata, e, nutrito di cultura teologica (tanto che gli si preconizzava una brillante carriera nella Chiesa), si prende adesso per un profeta, o per Cristo stesso. Rinsavisce, o così pare, proprio dopo l'improvviso decesso della cognata Inger, la moglie di Mikkel junior. Ma è lui, poi, a farla resuscitare, alla fine. Evento la cui straordinarietà è risolta, dalla regia, in un gioco di luci tale da lasciare nel dubbio sul suo effettivo svolgersi. Comunque, qualcosa di benefico e di eccezionale è già successo, con la conciliazione delle due famiglie rivali e l'annunciato matrimonio fra Anders e Anna. Estranei alla festa rimangono il Dottore e il Pastore, esponenti di una Scienza e di una Religione ufficiali che non ammettono deroghe all'ordine da esse stabilito. I due personaggi (incarnati da Denny Cecchini e Carlo Greco) declinano nella macchietta, sulla linea d'un «alleggerimento» della materia che rischia l'eccesso, ma che allo spettacolo, articolato in più ambienti dallo scenografo Mario Padovan, assicura una gradevole agilità. Tra gli attori, oltre Scaccia, si fanno apprezzare Gianluca Farnese, Consuelo Ferrara, Maggiorino Porta, ma soprattutto David Gallarello giusto e intenso Johannes.
AGGEO SAVIOLI, L'Unità 18 luglio 1992
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