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La recensione di Elia Kopcicwski
 

Il giudizio di un Israelita sull' opera di un Israeliano
Non ci nascondiamo che il veder rappresentata in italiano un'opera di Moshe Shamir, autore israeliano, opera che tratta inoltre un argomento di storia ebraica, ci ha profondamente commossi. Il fatto poi che l'opera sia stata prescelta per la XV Festa del Teatro dall'Istituto del Dramma Popolare, che nei suoi 14 anni di esistenza tante benemerenze ha acquistato nel campo teatrale, non può non riempirci d'orgoglio.
Un interrogativo, è vero, sorge quando si prende in considerazione il fatto che l'Istituto è nato «per riportare il teatro alle sue origini cristiane»: è il dramma dello Shamir un'opera che si rifa alle tradizioni cristiane o è, invece, un'opera eminentemente ebraica? Ad altri le benevole polemiche improntate certo ad uno spirito di amichevole mutua comprensione, ma che, d'altronde, siamo certi che non possono portare e non porteranno ad alcun risultato concreto, lasciando ognuno nelle proprie posizioni. Quello che invece è indubbio è che La Guerra dei figli della luce, attraverso il contrasto tra la posizione di Shimòn ben Shètach e quella di Jossì, capo dei ribelli, da una risposta altamente morale ad un interrogativo che anche oggi, dopo oltre 2000 anni dall'epoca in cui si svolge la vicenda, è di palpitante attualità; risposta che, pur nelle differenti sfumature derivate da tradizioni e interpretazioni diverse, è alla base sia dell'Ebraismo sia del Cristianesimo. Noi dal canto nostro, non abbiamo dubbi che è il Cristianesimo più puro che ha attinto, attraverso l'insegnamento farisaico, ai più elevati principi morali e spirituali dell'Ebraismo. Dalla Torà a Shimòn ben Shètach vi è una catena ininterrotta, i cui anelli sono rappresentati dall'insegnamento dei Profeti e dei membri della Magna Congregazione. E nelle parole che il grande Maestro fariseo pronuncia al termine del dramma: «...Non posso, non posso versare sangue. Non posso accettare che solo col male si possa conseguire il bene!...», riecheggia l'affermazione solenne di Isaia: «Non si farà né male né guasto su tutto il mio Monte santo, poiché la terra sarà ripiena della conoscenza del Signore come il fondo del mare dalle acque che lo ricoprono».
Il dramma che ci è sembrato molto ben reso in italiano dalla ottima traduzione di Giorgio Richetti, è ambientato in una delle epoche più turbolente della Giudea. Alessandro Janneo, indegno rampollo della stirpe degli Asmonei (che avevano capeggiatoun secolo prima la rivolta degli Ebrei contro il dominio di Antioco, re di Siria) è inviso al popolo per la sua tirannia; egli si è schierato con i Sadducei contro i Farisei, esautorando il Sinedrio; il popolo, vessato dalla sua tirannia, si ribella e per raggiungere la vittoria chiede aiuto a Demetrio, re di Siria, un successore di quell'antico Epifane dal quale gli Asmonei avevano appunto liberato la Giudea.
Il lavoro di Moshe Shamir, pur prendendo lo spunto da un'epoca così lontana, ci pone dinanzi ad un problema che, come abbiamo già accennato, potrebbe essere sollevato anche ai giorni nostri.
Da una parte abbiamo Alessandro Janneo, dall'altra Jossi, il capo dei ribelli. Ma Jossi è giovane ed impulsivo, ha in sé i germi della futura tirannide e, pur essendo spinto alla ribellione dall'amore per la libertà della sua patria, aspira lui stesso, inconsciamente forse, ad una posizione di predominio. Egli combatte Janneo con le sue stesse armi: ferocia contro ferocia, morte contro morte. E dalla morte non può nascere una nuova vita per lo Stato; né, tanto meno, da quegli stranieri che furono già acerrimi nemici del popolo d'Israele.
Ciò è quanto sostiene con passione colui che con la forza della sua personalità, la bellezza e la purezza delle sue intenzioni, sovrasta su tutta l'opera: Shimòn ben Shètach. Oseremmo dire che tutto il dramma è costruito per poter presentare questa figura, per farla balzare imponente al di sopra di ogni meschinità e ferocia.
Ben Shètach, Capo del Sinedrio prima di essere esautorato da Janneo, e fratello di Shelomith, moglie del re, benché ripetutamente sollecitato dai ribelli, si rifiuta di aderire formalmente alla ribellione. Egli è sì contro Janneo e la sua tirannia, ma tutti gli Ebrei gli sono egualmente cari: quelli di Janneo e quelli di Jossi. Non vuole Janneo, e con supremo sprezzo del pericolo che gli proviene dalla consapevolezza della propria autorità morale e dalla coscienza della propria posizione, non si perita di recarsi alla reggia per invitare il tiranno ad abdicare; ma, nello stesso tempo, vede con profonda indignazione l'impura alleanza dei ribelli con Demetrio e, in una delle scene più potenti e significative del dramma, egli lancia contro Jossi parole frementi d'ira e di sdegno: «Meglio il bastone del padre della benevolenza del padrone; meglio la punizione di un fratello del dono di un nemico».
Ed all'invettiva di Jossì che sostiene: «Se essere Ebreo è un titolo di onore, Janneo non è Ebreo... Non cerco molti Ebrei ma solo un po' di giustizia!», Shimon risponde: «La giustizia non si può ricercare Jossi... La giustizia cresce da sé: dal suolo del popolo, dall'uomo che ha porto aiuto al prossimo nel momento del bisogno, dalla casa la cui porta si è aperta al misero, dall'uomo che si è comportato amorevolmente con la compagna della sua vita, dal figlio che ha usato rispetto per il padre, dall'amico che non si è approfittato dell'amico».
La parte più significativa del dramma ci sembra tuttavia l'ultima scena, alla quale si giunge attraverso un crescendo di intensità drammatica; quando cioè, dopo che Janneo, servendosi come esca di Shimòn ben Shétach riesce a catturare i capi dei «Figli della luce», ritroviamo Shimon in preda ai più atroci dubbi sulla validità di quanto ha fino a quel momento predicato. Ma l'ingenua ed affettuosa insistenza di un umile pagano che, ammirato per la sua personalità e per l'onestà del suo insegnamento e delle sue azioni, desidera essergli discepolo ed abbracciare l'Ebraismo, e le parole con cui Shemajà, suo discepolo prediletto («Grande è la tua sofferenza, maestro, ma la Legge che mi hai insegnato era ben più grande») risponde al dilaniante dilemma che l'atroce fine dei capi dei ribelli gli avevano posto sulle labbra, danno a Shimon il necessario conforto per il momentaneo insuccesso della sua missione. Ed egli torna ad insegnare l'amore, la giustizia e la pietà, sì da curare il male della tirannide non con l'odio e la guerra ma con l'insegnamento e la morale che, se fanno presa nell'animo del popolo, sono la più bella e la più grande risposta all'oppressione ed alla tirannia.
Un dramma simile non poteva trovare uno scenario migliore di quello delle macerie del Politeama di Pisa, distrutto dai bombardamenti; ed un accostamento ci sembra qui appropriato: la distruzione portata in Erez Israel dalla lotta intrapresa dai ribelli contro la tirannia e dall'intervento dello straniero sul suolo della patria, trova un evidente parallelo nelle rovine in cui fu gettata l'Italia durante la sua lotta per la libertà. Ottimamente quindi hanno agito l'Istituto del Dramma Popolare ed il regista Franco Enriquez, insistendo perché il dramma venisse rappresentato sull'area del Politeama.
La interpretazione, piuttosto statica nella prima parte, accolta alquanto freddamente dal folto e scelto pubblico presente, ha acquistato nella seconda parte una sempre maggior vigoria,  terminando  tra applausi scroscianti  agli  interpreti, al regista ed all'autore, ripetutamente chiamati alla ribalta.
Dei singoli interpreti, ottima la recitazione del Mauri nella parte di Shimòn ben Shètach; buona quella del Giangrande (il Sacerdote Abba Shaùl) e dell'Ombuen (Jossi) anche se talvolta un poco incerta. Lo Scaccia nella parte di Janneo indugia un po' troppo in atteggiamenti istrionici, svisando la figura del re che doveva essere presentato sotto un aspetto più crudele ma anche più austero. Le tre interpreti femminili hanno saputo rendere con giusta misura i personaggi loro affidati: la Moriconi ha recitato con bravura la parte della regina angosciosamente divisa tra la devozione per il marito e l'amore per il fratello, per i figli e per il popolo; efficaci pure la Catullo e la Belli nelle parti rispettivamente della moglie di Jossi e della concubina del re. Particolarmente riuscita l'interpretazione che il Bargone ha dato dell'asinaio arabo Abba Talion.  Abbastanza buoni gli altri.
Nel complesso ci è sembrata ottima la regia di Franco Enriquez che ha saputo guidare gli attori con la sua consueta abilità nell'interpretazione di personaggi così lontani dalla vita di oggi. Ottimi anche i costumi e le scene, opera di Emanuele Luzzati.
Alla rappresentazione, che è stata onorata della presenza del Presidente della Repubblica, ha assistito un colto e numeroso pubblico. Tra i presenti, l'Ambasciatore d'Israele a Roma e la sua gentile consorte, il Console d'Israele a Milano e la sua signora; il Rabbino Capo di Roma, dott. Elio Toaff e quello di Firenze, M° Fernando Belgrado; il Prefetto di Pisa, S. E. Manfredi De Bernart; il Sindaco di Pisa, Avv. Galluzzi; il Sindaco di Firenze, Prof. La Pira; i Senatori Angelini e Pagni; l'On. Battistini; gli editori Bompiani e Feltrinelli; gli scrittori Moravia, Pratolini e Piovene.
Vogliamo da queste righe rivolgere un sentito ringraziamento all'Istituto del Dramma Popolare e al comm. Vallini e Dott. Chiti, presidente e direttore dell'Ente Provinciale Turismo di Pisa, per la perfetta organizzazione e la squisita signorilità con cui hanno accolto i giornalisti intervenuti. Il ragionier Cosci dell'Ente Turismo ed il dott. Caciagli, addetto stampa dell' Istituto del Dramma Popolare, si sono prodigati per rendere più piacevole il soggiorno dei critici intervenuti.
Elia Kopcicwski, Bollettino della Comunità Israelitica di Milano, Milano, Settembre 1961




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