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Si legge nella Lettera a Diogneto:“ I cristiani infatti non si distinguono dagli altri uomini né per regione né per linguaggio né per abito (…) La loro dottrina non è certo un ritrovato di uomini intriganti; e neppure essi si atteggiano a sostenitori di una dottrina umana, come altri fanno (…) Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno del bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita. I Giudei muovono a loro guerra come a gente straniera, e i pagani li perseguitano; ma coloro che li odiano non sanno dire la causa della loro inimicizia” [1].
Crediamo che quanto scrive lo sconosciuto autore dellaLettera a Diogneto benetratteggi l’“essere profeta” del cristiano e della comunità cristiana.
L’essere autenticamente cristiani, l’essere autenticamente credenti ci fa stranieri e pellegrini in questo mondo alla ricerca di una patria [2]. Per il vero cristiano di ogni tempo e di ogni luogo questo significa persecuzione e martirio. L’impero di Roma (ma potremmo dire ogni impero di questo mondo), tollerante verso ogni fede religiosa tanto da onorarne sincretisticamente tutte le divinità in un unico tempio, il Pantheon, combatte il cristianesimo con una ferocia inaudita, avvertendone le potenzialità eversive. Scrive Caputo: “Religione dell’uomo, al quale promette una felicità personale al di là dei tempi e dei luoghi, il cristianesimo collide in maniera irrimediabile con la religione ufficiale di Roma: che non è religione dell’uomo, ma religione dello Stato: della Salvezza terrena dell’uomo nello Stato e per lo Stato: della salvezza in questo tempo e in questo mondo. Religione universale (…) il cristianesimo include una carica di proselitismo, una spinta missionaria che lo rende sospetto alle autorità, pericoloso per l’ordine pubblico dell’impero” [3]. Quale forza porta in sé l’annuncio cristiano?! Debole ed esangue, ritrova nel tempo della persecuzione forza, vivacità, credibilità, quasi una risurrezione.
È questa la profezia: il cristianesimo non viene estirpato dalle sanguinosissime persecuzioni, nonostante i milioni di martiri, ma proprio allora si diffonde con maggiore vigore dinanzi agli imperi di questo mondo sempre in declino e in dissoluzione.
Tutta la storia di Israele è abitata dai profeti e dai falsi profeti, perseguitati i primi, gli altri idolatrati e sempre presenti non alla storia ma alle storie che raccontano i tiranni di turno. Le loro labbra untuose traboccano di parole camuffate: gergo di prostituzione al soldo dell’ideologia del momento. Anche il nuovo Israele, la Chiesa, nel suo cammino bimillenario, sempre ha dovuto subire e pazientare e tollerare nel proprio oggi, la falsa profezia, quella zizzania che un nemico, di notte, ha seminato tra il buon grano, e questo fino a quel domani, quando saranno falciati il grano e la zizzania e divisi e perciò svelati [4].
Ma perché i falsi profeti? Perché la falsa profezia? È arduo rispondere, ma dobbiamo tentare: crediamo che i falsi dei creino falsi profeti!
Forse l’origine, il nascere nell’uomo della falsa profezia, stanno proprio nello scegliere, nel servire, nell’accogliere falsi dei nella propria vita.
In altre parole è imboccare la via spaziosa e la porta larga di cui parla il Vangelo [5], che descrive i falsi profeti come dottori di menzogna seducenti il popolo con false sembianze di pietà, con l’intento di perseguire fini interessati: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere (Mt 7,15-20)”.
Ma cosa cercano costoro, che cosa desiderano, cos’è che li muove fino ad essere menzogneri e assassini? Il potere!
E perché cercano il potere nelle sue diverse connotazioni: denaro, politica, prestigio? Nell’illusione di diventare dei! Ascoltarli significa per l’uomo naufragare, credere alle loro promesse significa essere travolti dall’inganno di sempre.
Illusione antica, sottilmente diabolica, proposta mortale per l’uomo: “ (…) il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio (Gn 3,4)”.
Ecco la verità falsa: via senza meta che snatura, non più pellegrini in cammino verso Dio, ma errabondi e dispersi sui percorsi immaginati dall’uomo. Vita non più donata all’altro, ma vanificata e dispersa da mille angosce, da mille paure, da mille egoismi; vita nutrita uccidendo altre vite, spargendo altro sangue, eliminando gli amici veri, in un’orgia diabolica, paranoica difesa da nemici che non esistono. A questo riduce il potere, sconfiggendo “i grandi” di ieri, di oggi e di domani.
A questo uomo sconfitto che sperimenta il tempo della disillusione, i giorni della morte che incalza, impietosa e inarrestabile anche di fronte alle fortezze costruite sugli alti monti, sprezzante dei palazzi dei re e dei potenti del mondo, a quest’uomo che vive le ore angoscianti nelle quali i morsi della fame non possono essere vinti da nessuna mensa e da nessun cibo, neanche dal più succulento di questa terra, si offre, fino alla fine del mondo, il profeta crocifisso, il Cristo, verità vera, vita immortale, via perché l’uomo possa essere salvato. L’impotenza della croce, non il potere del mondo realizzerà tutto questo.
Machiavelli ha scritto: “Tutt’i profeti armati vinsono, e li disarmati ruinarono” [6].Ma noi sappiamo anche, è scritto nel libro della Sapienza, che “ le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, (…) Agli occhi degli stolti parve che morissero (…) La loro speranza è piena di immortalità (…) Nel giorno del loro giudizio risplenderanno; come scintille nella stoppia, correranno qua e là. Governeranno le Nazioni, avranno potere sui popoli e il Signore regnerà per sempre su di loro (Sap 3, 1-2.4.7-8).
Sono queste parole del libro della Sapienza una profezia e un piccolo manifesto della storia della santità che ha attraversato due millenni.
Profezia perché i santi sono la memoria, la presenza, l’attualizzazione del Cristo nell’oggi della storia. Piccolo manifesto perché elenca il parlare e l’operare, la lotta e la vittoria, la fatica e il premio che li fa simili a Cristo. “Nella vita dei santi che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18) Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb 12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati” [7].
Sappiamo bene, del resto, che la vera natura del male a cui ci si trova di fronte anche nella questione dello «sviluppo dei popoli», è quella di un male morale, frutto di molti peccati, che portano a «strutture di peccato». Solo diagnosticando così il male è possibile identificare esattamente, a livello della condotta umana, il cammino da seguire per superarlo. Cammino che non può non essere che un cammino di santità.
“Tra le azioni e gli atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo e le «strutture» che essi inducono”, scriveva Giovanni Paolo II, “i più caratteristici sembrano oggi soprattutto due: da una parte, la brama esclusiva del profitto e dall'altra, la sete del potere col proposito di imporre agli altri la propria volontà. A ciascuno di questi atteggiamenti si può aggiungere, per caratterizzarli meglio, l'espressione: «a qualsiasi prezzo». In altre parole, siamo di fronte all'assolutizzazione di atteggiamenti umani con tutte le possibili conseguenze. Anche se di per sé sono separabili, sicché l'uno potrebbe stare senza l'altro, entrambi gli atteggiamenti si ritrovano nel panorama aperto davanti ai nostri occhi indissolubilmente uniti, sia che predomini l'uno o l'altro. Ovviamente, a cader vittime di questo duplice atteggiamento di peccato non sono solo gli individui, possono essere anche le Nazioni e i blocchi. E ciò favorisce di più l'introduzione delle «strutture di peccato», di cui ho parlato. Se certe forme di «imperialismo» moderno si considerassero alla luce di questi criteri morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente ispirate solo dall'economia o dalla politica, si nascondono vere forme di idolatria: del denaro, dell'ideologia, della classe, della tecnologia. [8]
La testa del Profeta, Dramma in tre atti di Elena BONO, scelto quest’anno per la LXIII Festa del Teatro dello Spirito, diviene occasione per rileggere, al di là dei fatti e dei personaggi, il dramma dell’intrigo politico che attraversa e segna la storia dell’uomo. Storia di inganno, di tradimento, di gelosia, di innocenti condannati e uccisi. Storia di uomini che non credono alla salvezza come dono che scende dall’alto, ma si affidano a una salvezza opera delle loro mani, frutto della loro intelligenza, astuzia, intrigo. Un marciume dove l’uomo sembra sguazzare volentieri: “Miei cari corvi. Tutti occupati a strapparvi l’uno con l’altro la regal carogna: me, Erode Antipa. Solo lui (Giovanni Battista) c’è che vorrebbe rifare di questo verminaio che sono io … che sei tu … che è tutto il mondo … una cosa viva. Risuscitarci tutti . Ah non aver paura: non troverà neppure uno disposto a risuscitare. Stiamo bene così: in quest’odore … in questo calore di putrefazione … e tutto quello che ci germina e ci brulica dentro. Impara. E noi siamo tutti fiori: io un fiore, tu un fiore, Erodiade un grande magnifico fiore” [9].
Tutti i personaggi di questo Dramma, altezzosi e sprezzanti, indaffarati in una sottile schermaglia di intelligenze che mirano ciascuna a uno scopo ben preciso, facendo molta attenzione a non scoprirsi, se non quanto necessario, per non dismettere la loro bardatura di dignità e prestigio, sono condannati a essere comparse, semplici comparse di una Storia, quella vissuta e sofferta dal Profeta: l’ amico dello sposo che esulta di gioia alla voce dello sposo [10]. Storia questa che si intreccia con la storia del mondo e offre all’uomo luce, senso, salvezza. È in questa ottica che il vero protagonista del Dramma, nonostante non pronunci una sola parola, è Giovanni il Battezzatore, una testa mozza su un piatto d’argento, “lingua nera del bue macellato … Scarto sanguinolento, avanzo per cani” [11].
La morte, il martirio di quel profeta impotente si fanno annuncio e via verso la salvezza, verso l’incontro col Salvatore. Ogni profeta può ripetere col Battista: “Egli deve crescere e io invece diminuire!” [12].
Non sarà vittorioso il seduttore che attrae a sé: denaro, bellezza, potere, intrigo, menzogna, ingredienti usati dalle Erodiadi di ogni tempo per i propri artifizi, ma il profeta che prepara la via al Signore e perciò la via all’uomo, il ritorno della creatura al suo Creatore.
“Ti ricordi le parole che disse quell’uomo di Nazareth…Tornate da Giovanni; ditegli i ciechi vedono, i morti rivivono e ai poveri viene annunciato il Regno di Dio… - Andiamo da quell’uomo. È Giovanni che ci manda. Io dico che lo conosceva già, quell’uomo…lui non aveva bisogno di sapere chi era… ma voleva indicarcelo a noi… per quando lui non ci fosse più… per indicarcelo a noi…” [13].
Felice occasione questa per meditare e riflettere la nostra vita di cristiani alla luce dell’ottimo lavoro della Elena Bono. Di questa autrice applaudiamo, come scrive Elio Andriuoli, la grande capacità di far rivivere un’ epoca, di darci una pittura di quello che è stato un momento della storia umana, con tutto ciò che di bello e di turpe esso ha racchiuso. I personaggi che ella ci presenta pensano e agiscono come uomini e donne del tempo e del mondo in cui vissero, anche se portano in se stessi le passioni di sempre. [14]
È speranza intima che anche nei nostri giorni, dopo l’esperienza di grandi misfatti e di tanti sacrifici umani, riaffiori la nostalgia di “qualcosa” che abbiamo perduto, di un “Qualcuno” da cui ci siamo allontanati, tanto da gemere e soffrire interiormente perché stranieri e orfani seppur inconsapevoli [15]. Quella stessa nostalgia che ci pare di poter raccogliere sulle labbra di Erode Antipa: “Nessuno ho amato quanto lui. Era tutto quello che non potevo piegare né comprare… ma Dio mi è testimone che mentre mi accanivo a strappargli un si che me lo facesse complice… dentro di me… io dentro di me gridavo: « Resisti anche per me Giovanni! A chi potrò credere io… a cosa appoggiarmi se anche questa roccia finisce in fango?». Era tutto quello che in qualche tempo… in qualche luogo ho sognato di essere, forse…” [16].
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