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La recensione di Gian Filippo Belardo
 

Ritorno alla poesia
E' il momento della poesia. Momento atteso e non imprevisto per chi ha avuto fiducia, paziente fiducia, nelle più riposte esigenze di un'umanità in ricerca. Poesia in teatro, poesia in piazza, poesia nelle chiese. Anche pseudo-manifestazioni come la recente « grande kermesse » di Castel Fusano che, pur con vistosi aspetti deteriori, ha reso evidente il fascino che la poesia estende su larghi strati popolari.
Questo fenomeno è giunto in Europa dopo che negli Stati Uniti, negli Anni Sessanta, la vena della beat-generation era interiormente alimentata da una costante linfa d'impronta mistica e spirituale, ricercata, paradossalmente, attraverso un esasperato processo di esperienze individualistiche, anche nella sfatta corporeità e nelle vibrazioni sregolate dei sensi. Caduta e liberazione: « anche i nostri vizi — ha scritto Gergory Corso — provano l'esistenza di Dio, così come le ombre indicano la direzione  del  sole ».
Ma non si può affermare che dopo il consumismo e il benessere elevato a mito, l'America abbia esportato in Italia anche la « moda » della poesia.
Fuori delle « mischie » e dei cenacoli alla moda i pochi, autentici, poeti hanno proseguito per anni, fra i poli opposti dell'indifferenza e della curiosità, il personale cammino interiore, affinando nella solitudine l'estro espressivo.
Ed ecco fra il 1978 ad oggi l'esplosione della poesia spiritualistica e d'impronta religiosa. Giovanni Testori in « Conversazione con la morte », offerta con personale lettura in oltre quaranta città a un pubblico entusiasta, si scioglie in un cantio fraterno, in un ritrovato limpido abbraccio con la natura e con gli uomini, scandito dal tono penitenziale di un « Miserere » e rischiarato dalla grazia della Resurrezione. E Mario Luzi, dopo il riconoscimento del « Premio Viareggio », a « II fuoco della controversia », vede ora rappresentato, « Ipazia » e il « Messaggero », che segna un evento storico nella cultura: il ritorno della poesia a teatro.
Con il ritorno della poesia, la parola riprende sulla scena il posto che le compete. Da anni l'alibi di comodo della « liberazione gestuale » ha consentito a uno  stuolo di dilettanti e di millantatori presuntuosi di invadere un campo non di loro pertinenza, sulla scia di pseudoestetiche di comodo e di moda.
La parola, dunque, torna ad avere il sopravvento, proprio nel momento di maggior fulore dei mass-media: uno segno confortante, una dimostrazione della vitalità dell'auto difesa della coscienza, della fantasia e dell'io.
[...] Non tragga in inganno la trama. « Ipazia » non è un dramma storico, ma un poema di respiro cosmico, una profonda meditazione sul destino umano, espressi attraverso un linguaggio di classico nitore, in un continuo fluire di immagini, che fanno levitare i fatti e i personaggi in una dimensione superiore. E' un'opera permeata di una spiritualità tutta interiore, modulata sui piano e sui pianissimo, e rivela una ispirazione autenticamente cristiana. Con « Ipazia e il Messaggero » Luzi prende le distanze dalla storia, — così come la vedono gli storicisti — e la considera « uno schema vuoto, un modo di svellere la mente dell'uomo dal senso profondo del mutamento e del continuo accadere ». Luzi, come Teilhard de Chardin vede la creazione che ingloba la storia e la include in un disegno  entro  cui  entra  l'umanità.
Sulol sfondo storico s'innestano splendidi momenti lirici affidati anche o personaggi minori (Jone, Irene) in cui vibrano sentimenti e affetti, resi con una levità espressiva che è pari alla profondità dell'introspezione psicologica.
Non è una semplice coincidenza che ad allestire un testo di alta e limpida liricità sia stato chiamato Orazio Costa Giovangigli, che nella sua più che trentennale opera al servizio del teatro ha costantemente seguito, e inseguito,  il valore evocativo della parola.
Costa ha « tradotto » il testo in uno spettacolo dalla nitida scansione ritmica, con una sapiente, quasi pedagogica « dilatazione » della parola, secondo lo stile rigoroso dell'oratorio. Una personale scelta stilistica [...].
Gian Filippo Belardo L'Osservatore Romano, Roma, 30-31 Luglio 1979




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