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La Nazione - La recensione di Paolo Lucchesini
 

Malaparte proibito
«Imprevedibile e imprendibile... Una sola fede egli ebbe costante: nell'uomo e nessuno fu più tradito di lui. Epicureo e mistico, ladro e carabiniere (ma le due prigioni erano piene di canzoni anche se tuonava come un Giove adirato e sognava stermini purificatori), protestante e cattolico, controriformista e rivoluzionario, volle e non volle: la sua natura lo portava a non rifinire nessuna esperienza di vita; tutte erano da sperimentare per conoscere e capire meglio».
Ecco un succinto, ma compiuto, ritratto di Curzio Malaparte descritto amorevolmente da Raf Vallone. Era una figura complessa, luminosa, curiosa, vivida fino all'eccesso, interessata a qualsiasi avventura: giornalista, narratore, saggista, drammaturgo, cineasta, autore di riviste, regista di opere liriche pronto a misurasi con la pagina, il set, il palcoscenico, la musica; volubile e incostante, geniale e scontato. Nel 1951 Malaparte scrisse, diresse, realizzò l'unico film, Cristo proibito, che piacque moderatamente alle platee, e che fu tartassato dalla critica, mentre il Festival di Cannes lo considerava, e quello di Berlino lo premiava.
Il pubblico non capiva la sua tagliente satira politica. In poche parole Malaparte riuscì a bruciate tutte le proprie risorse intellettuali, artistiche e mediali, in particolare durante la produzione del Cristo proibito. «Il mio film - scriveva - vuole essere un omaggio a Rossellini, a De Sica, al Blasetti di Quattro passi nelle nuvole, al Visconti della Terra trema. Tutto, nel mio film è come è della vita del popolo, tutto, anche la sensualità, è in funzione di uno scopo che non è il piacere. Il Cristo proibito mette in scena passioni, princìpi, sentimenti, idee popolari, che sono del popolo, e soltanto del popolo». Viceversa, ancora una volta, la critica continuava a martoriare il lavoro malapartiano: sia la letteratura, sia (anzi, peggio) il suo «cinema fatto con la macchina da scrivere». Ebbene, l'Istituto del dramma popolare ha voluto ricordare Malaparte contestualmente, allestire per la scena Il Cristo proibito, già romanzo abbozzato e poi film deriso: finalmente un omaggio dovuto, nonché una scelta intelligente dopo una dozzina di testi e allestimenti discutibili, se si escludono opere importanti come Giobbe di Karol Wojtila, sacrificato, e Fiorenza di Thomas Mann. Tutto ciò può significare una svolta per Festa del teatro. L'idea di recuperare film e racconto per farne un dramma si deve alla determinazione del regista pratese Massimo Luconi, uno studioso della vita e delle imprese malapartiane, unico a poter raccogliere e valutare pagine, aneddoti, ricordi, un coacervo prezioso per compattare una dignitosa, nuova drammaturgia. Luconi, col supporto amicale di Ugo Chiti, ha riscritto un testo scarno, brusco, più vicino al brogliaccio letterario che alla sceneggiatura filmica tacciata di pesantezza, una story stringata, quasi una serie di scene paratelevisive i cui personaggi, in parte, sembrano superficiali, volatili, ottusi per poi scuotersi improvvisamente e ricadere nel buio. Infatti, regista elegante, Luconi s'è accorto in ritardo di aver sfrondato fin troppo il copione - poche scene madri - e per rimediare ha allungato il brodo con passaggi inutili, abbandonandosi a una lenta tiritera teatrale, recuperata dalla bravura e dall'orgoglio degli attori. Il Cristo proibito, insomma, avrebbe meritato maggior vigore. Il dramma ruota intorno a una spiata in cui muore il fratello di Bruno, reduce dalla Russia, che si logora nel cercare l'assassino; per placarlo padre Antonio, un saggio falegname, si lascia uccidere dal giovane folle: «Per salvarsi hanno bisogno d'un innocente che si sacrifichi per loro». Una compagnia eccellente a cominciare da Massimo De Francovich, un ieratico padre Antonio; Claudio Bigagli un Bruno sconcertato, cupo; Lucilla Morlacchi una dolcissima madre. A parte la straordinaria troupe della Arca Azzurra forte di un italiano appena colorito di toscano, vero smagliante: al meglio Marco Natalucci, Fernando Maraghini, Patrizia Corti (belle le canzoni) Lucia Socci, Dimitri Fresali, Ilaria Daddi, Andrea Costagli, Massimo Salvianti e Giuliana Colzi.
PAOLO LUCCHESINI, La Nazione 16 luglio 1994




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