La Passione e l'Estasi nella Firenze di Thomas Mann
Sono trascorsi quarant'anni dalla prima Festa del Teatro. Non invano San Miniato con il suo Istituto del Dramma Popolare ha conservato intatti i valori ideali che convinsero un drappello di intellettuali e uomini di teatro cattolici — « eterni pazzi » scrisse Achille Fiocco — a costituire uno spazio ove, ogni anno, si potesse rappresentare un'opera nuova per l'Italia che fosse chiaro un richiamo alla spiritualità dell'uomo. Quarant'anni, illuminati da grandi opere e prestigiose regie e interpretazioni, ma anche tormentati da una sempre crescente difficoltà di reperimento di valide novità e da una persistente labilità di contributi sul finire degli anni Sessanta; quarant'anni in qualche momento sembravano esser diventati un traguardo lontano, perfino irraggiungibile, mantenendo dignità rigore e splendore originari.
Anni fa, scelte forzate o errate, avevano spinto la Festa del teatro a livelli inquietanti, anche per chi professa convinzioni laiche; assistere al progressivo affievolirsi di un faro di cultura non può che lasciare amareggiare. Negli ultimi anni il direttore Marco Bongioanni si è impegnato in una serie di tentativi di rilancio dell'Istituto con scelte coraggiose (dal Processo di Shamgorod, testo interessante ma avvilito da una mesta regia, allo stimolante organico Oltre le trincee, al Giobbe di papa Wojtyla, opera giovanile fiammeggiante di fede, trasformata da Zanussi in uno spettacolone senzazionale), ma ha fatto centro soltanto con la prima italiana di Fiorenza, dialoghi di Thomas Mann, che lo stesso Bongioanni ha adattato con Aldo Trionfo, tornato alla regia, superato un periodo di gravi traversie fisiche, sfoggiando mano felice nel proporre un testo che aveva già fallito più volte (sei le rappresentazioni in lingua) il confronto con il palcoscenico. Ritrovare Aldo Trionfo, commosso e tremante, a ringraziare il pubblico con attori e collaboratori è stata una gioia in più procurataci da questa quarantesima Festa del teatro. Dicevamo dell'adattamento di Bongioanni e Trionfo. E' stato il primo decisivo passo compiuto verso la rappresentabilità del testo di Mann: un determinato, ma rispettoso lavoro di forbice, sui primi due atti e una parte del terzo, sfrondati da pleonastiche scene d'ambiente. Poi per accrescere la presenza del Savonarola, sono stati scelti con opportunità e misura brani dalle sue prediche, posti con superiore efficacia in bocca al priore di San Marco, anziché riferiti o interpretati dalla corte di Lorenzo, frammenti documentari che si intrecciano con il dotto cicaleccio degli intellettuali.
Infine, senza tradire le interpretazioni dell'autore, che, pur considerando Savonarola « suo eroe », guarda con maggiore simpatia a Lorenzo, si è voluto, diciamo, « giustificare » fideisticamente il martirio di Savonarola profetizzato da Fiore. Il dramma non si chiude con la battuta orgogliosa - forse l'estremo peccato di superbia del frate —, « Io amo il fuoco », ma prosegue con un'appassionata repulsa di ogni sorta di potere, compreso quello ecclesiale (che poi lo condannerà come eretico), e con una dolente preghiera, che denuda il Savonarola dei panni dell'oratore seducente, invasato di Dio, per mostrarcelo uomo, vulnerabile condotto alla soglia della morte, consunto come Lorenzo dal desiderio di imporre un modello di vita: non fa differenza se il religioso predica con l'esempio.
Fiorenza, così com'è stata offerta a San Miniato, è opera di alta poesia, un mirabile Lesedrama, che riapre l'inesauribile dibattito sull'essere uomo, senza offrire i limiti dell'oratorio. Grazie a Trionfo, Fiorenza è teatrale: ne fanno fede i preziosi inserti predicatori, la delicata, ironica scena di Lorenzo con i figli, la sortita esibizionista di Piero che tenta di circuire Fiore, la celebre schermaglia ideologica fra Lorenzo e Savonarola. Funzionale ed emblematica la scena di Giorgio Panni, un cerchio scespiriano dorato, centro del potere mediceo, serrato fra due pulpiti lignei. Ispiranti alla iconografia classica i sontuosi costumi di Aldo Buti. Arnaldo Foà ha intriso di malinconia e sbigottimento un Lorenzo giunto all'ultimo giorno della sua esistenza l'8 aprile 1492, preoccupato del futuro della sua città, che avverte l'imminenza della sua fine, s'incanta ai richiami severi di Savonarola, si spacca in bande rivali. Stanco, incerto, patetico, ha ancora improvvisi guizzi di genialità e di amore per l'arte e per la cultura, patrimonio che non deve essere negato, né perduto.
Virginic Gazzolo ha disegnato un Savonarola camaleontico incantatore di folle in primo luogo, maestro di tirate appassionate e di scarti improvvisi d'umore. Gazzolo, attore moderno, incline a entrare ed uscire repentinamente dal personaggio, ne ha fatto un ritratto conturbante.
Eccellente il contorno: Sabrina Capucci, delicata e altera Fiore botticelliana; Piero Caretto, un sensibile Poliziano; Edoardo Sirano, un fiero Pico della Mirandola; Paolo Musio, un Piero de' Medici armato di giovanile furore; Marco Maltauro, un infantile Giovanni, cardinale in erba; e poi Gianfranco Candia, Carmelo Grassi, Gabriele Parrillo, Ivan Polidoro, Marco Presta. Molti applausi per tutti. Fiorenza, per fortuna, non morirà a San Miniato: l'attende ama lunga tournée estiva ;e, forse, anche una ripresa autunnale.
Paolo Lucchesini La Nazione, Firenze; Il Resto del Carlino, Bologna, 12 Luglio 1986
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