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La Voce - La recensione di Luigi Testaferrata
 

Povero Cristo latitante di Malaparte
Confessiamo di non aver capito l'invenzione con cui il regista Massimo Luconi mette fine al Cristo Proibito di Curzio Malaparte nella piazza Duomo di San Miniato al Tedesco. A conclusione del dramma, liberamente contraffatto dallo stesso Luconi insieme a Ugo Chiti e recitato dagli attori fiorentini de L'Arca Azzurra con la partecipazione di Lucilla Morlacchi, dopo la morte per ammazzamento di Padre Antonio che si è assunto la dimensione del Cristo non più «proibito» che redime un'altra volta l'umanità devastata dagli odi, dalle vendette, dai delitti dell'ultima guerra, tutti gli attori invadono il palcoscenico, sciorinano un immenso lenzuolo bianco. Lo alzano sopra le teste e facendolo ondeggiare coprono tutto. È la citazione dell'ultima scena del Novecento di Bertolucci? O è la teatrale imitazione del sistema con cui il decreto Biondi avrebbe steso un sudario di silenzio e di invisibilità su tutta la questione di Tangentopoli? Certamente Curzio Malaparte, nel luogo in cui è ora, avrà avuto la nostra stessa impressione e si sarà sorpreso a domandarsi che fine abbia fatto - se è vero, come è vero, che il lenzuolo bianco è l'unica cosa spettacolarmente riuscita nel corso dei due tempi sciattamente, paesanamente toscaneggianti - il Cristo Proibito che lui, soggettista e regista, girò con Raf Vallone, la Varzi e Cuny nel 1950. Può darsi che, in quel luogo dove si trova ora, si sia un po' risentito e abbia convenuto con noi che dal 1947 in qua, da quando La maschera e la grazia di Henry Gheon, con la regia di Alessandro Brissoni, dette inizio all'avventura del Dramma Popolare, non si era mai visto nulla di più pretenziosamente vuoto. Il che non ha escluso che il successo sia stato caloroso.
LUIGI TESTAFERRATA, La Voce 23 luglio 1994




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