La recensione
Nel Quinto Evangelista di Pomilio si rinnova il significato della Passione
Nel suo fortunato volume Il quinto Evangelio, una avvincente combinazione di fantafilologia e di alta saggistica, lo scrittore Mario Pomilio, «normalista», abruzzese, autore di numerosi romanzi e saggi critici, immagina che un ufficiale americano capiti dopo la guerra in una chiesa di Colonia e lì, tra vecchie carte abbandonate, trovi le tracce di un quinto Evangelio, che si aggiunge ai tre sinottici di Matteo, Marco e Luca e al quarto di Giovanni. Con un procedimento del tutto comprensibile, la scottante materia, vissuta con sincerità intellettuale e intensità di sentimento, si mette per conto proprio a configurarsi in dramma; e all'autore altro non resta da fare che aggiungere, in appendice al suo libro, un copione teatrale, Il quinto evangelista, nel quale drammaticamente si rivive al presente, nei gravi anni Quaranta, durante la guerra, la vicenda di cui l'ufficiale americano andrà alla scoperta nel romanzo (se possiamo chiamarlo così).
Siamo, dunque, nella sala di riunione di una parrocchia tedesca, nell'anno 1940. Il parroco, padre Mende, un religioso il cui attivismo pastorale è sorretto da una salda fede e da un serio, anche se non amplissimo, apparato culturale, organizza dibattiti di carattere religioso. Il dibattito è aperto, come spesso avviene nei paesi con pluralismo confessionale, e nei quali anche laici e agnostici partecipano liberamente al dibattito religioso. È chiaro che l'incombere del nazismo, mai nominato, ma per questo più sinistro e insinuante, da alla riunione un carattere più teso, quasi provocatorio; tanto che tra i presenti alla riunione stessa non mancano soldati in divisa e un alto ufficiale della Wehrmacht, ma apolitico, almeno si illude, e convinto che politici e religiosi, occupandosi di regni diversi, possano tranquillamente convivere, nel peggiore dei casi ignorandosi reciprocamente.
Il dibattito del giorno, preceduto e nobilitato dalla esecuzione di un quartetto di archi con organo, verte sulla differenza, piccola, per la verità, ma interessante, che esiste tra i racconti dei sinottici; e quelle, di maggior rilievo, che si incontrano nel quarto Vangelo, il cui autore Giovanni, «il discepolo che Gesù amava», testimone della Passione sin sotto la croce, sembra interessato più di una volta a rettificare il rapporto dei suoi predecessori. Di queste differenze si è occupata a lungo la critica filologica, con ipotesi varie, acute o semplicemente ingegnose. Ma è evidente che non è il punto di vista filologico a interessare l'autore, sebbene il valore esistenziale dei testi, nella loro unità e nella loro diversità; direi, la loro contestualità, articolata, dialettica e problematica, per cui il problema, risolto o negato in sede filologica, si ripresenta in sede storica, artistica, morale, come se qualcosa sfuggisse di continuo nella definizione della figura di Gesù e di continuo occorresse la presenza di un quinto evangelista a riprendere la ricerca sotto ogni punto di vista, avendo come fine la definizione sempre più perfetta, ma non mai compiutamente perfetta, di un assoluto morale, del Dio figlio di Dio, che è nel medesimo tempo figlio dell'uomo. Il quinto evangelista è, in altri termini, lo Spirito che perennemente si cerca, la coscienza umana che non è soltanto spettatrice, ma direttamente impegnata nella creazione.
Credo vada sottolineato quanto una tematica simile faccia spicco per livello culturale nel panorama abbastanza scoraggiante della cultura cattolica italiana, ribaltando le strutture tradizionali del pensiero tolemaico, nel quale da secoli non si crede più, ma ci si comporta come se fosse vero. Ecco un cattolico, il Pomilio, la cui esistenza e collocazione culturale è sicuramente databile nel nostro secolo, e la cui fede non è ignara del travaglio storicistico del dramma pirandelliano dell'identità; l'autore ha esordito infatti con un saggio su Pirandello.
Ed eccoci agli stasimi successivi di questo dramma, che sembra identificare nella passione un archetipo tragico perenne: portato il problema intelletuale all'incandescenza, i partecipanti alla riunione si investono talmente delle parti che man mano si assegnano, da rivivere le più drammatiche testimonianze in particolare quelle di Pietro, di Caifa, di Giuda, di Filato, con tutte le problematiche annesse, dall'umiltà al pentimento del peccato, al libero arbitrio e predestinazione, dal conflitto fra religione formale e religione sostanziale al rapporto tra potere politico e coscienza religiosa, cioè tra Stato e libertà. E come la Passione è la concreta rappresentazione del fatale dramma umano, essa non può non trovare un esempio anche tra i presenti: un appassionato ragazzo, che si investirà della parte del quinto evangelista, non potrà non ferire la suscettibilità dell'ufficiale nazista nella sua difesa del dovere, cui senza discutere obbedì Filato nel collaborare alla morte di Gesù. Sviluppando nell'azione pubblica i valori dei Vangeli, il quinto evangelista predica il dissenso dalla totalitaria religione dello Stato e si offre vittima volontaria al rappresentante del potere.
Densa di motivi di riflessione culturale e morale, questa opera non può non risentire della inesperienza drammaturgica dell'autore; il quale, grazie a dio, pecca di umiltà e non di orgoglio, nel senso di non avere abbastanza fiducia e sicurezza nella parola drammatica; un male di cui si guarisce creando. Si accorgerà allora, a guarigione avvenuta, che la parte di Giuda esòrbita alquanto dal contesto e che non sempre è rispettata l'intuizione iniziale della ricerca di un'identità, di un volto; soprattutto quello di Gesù. Ciò varrà anche ad eliminare una certa obiettiva lunghezza, che per altro pesa il meno possibile.
Lo spettacolo è prodotto dal Teatro Stabile dell'Aquila e inscenato nella chiesa di S. Francesco a S. Miniato al Tedesco. La regia di Grazio Costa Giovangigli è, al solito costruita con sicurezza e con gradevole lievità data la inevitabile fissità di un dibattito. Direi che il regista — e questo è esemplare — ha avuto più fiducia nel testo dello stesso autore e ha giustamente eliminato certe inutili sovrapposizioni. La recitazione è chiarissima e scarna, anche nei momenti più accesi in alcuni punti la presa è assai viva. Merito anche degli ottimi interpreti, tra i quali spiccano il caro Andrea Bosic, che nella parte del prete arriva sino alla civetteria di certi sorrisetti con cui la gente di Dio troppo sicura della propria fede si difende dalle abiezioni più gravi; Pietro Biondi, un tagliente avvocato Schimmel, ateo e razionalista; Giovanna Galletti, una madre prudente, poi atterrita; Mico Cundari, un saggio e liberale pastore protestante; Claudio Trionfi, un penetrante Giovanni; Giampiero Fortebraccio, un preciso ufficiale tedesco; Sergio Salvi, un freddo cavilioso Caifa; Alberto Manciotti, un Giuda intellettuale tormentato; Sergio Reggi, un intenso, sincero Pietro; Gabriele Carrara, un quinto evangelista, con una bella progressione dalle incertezze iniziali dello studente alla veemenza appassionata della sua professione di fede nella libertà.
Tutti gli interpreti, l'autore e il regista, sono stati a lungo e calorosamente applauditi.
GIORGIO PROSPERI, Il Tempo, Roma, 21 Settembre 1975
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